Category: Racconti FantasyItalia
Review Title: L’ultimo giorno - Vincitore del II Concorso di FantasyItalia


L’asfalto sembrava essersi tramutato in fango, al punto che vi affondava i piedi. Pareva volerlo trattenere, bloccare la sua corsa, farlo rimanere lì, come spettatore. Lui correva disperatamente, col fiatone che già gli si strozzava in gola. Non voleva voltarsi. Sapeva fin troppo bene cosa avrebbe visto. Lo attanagliava il timore che posandovi gli occhi l’avrebbe afferrato, intrappolandolo in quella realtà a cui non credeva... a cui non poteva credere. Solo fino a poco tempo fa non c’era niente di anormale. C’erano parole, risa; c’era una timida alba che preannunciava l’inizio di un nuovo giorno, c’erano persone ancora riunite alla fine di una festa in maschera. E poi c’era stato quel vento. Quella luce strana. Aveva visto il sole farsi grigio, all’improvviso, come se fosse stato ricoperto da un’onda di ghiaccio. Era più simile al riflesso della luna in un cielo limpido. Dapprima qualcuno aveva persino cercato di filmare quello strano fenomeno con videocamere o cellulari, ma la sorpresa iniziale era durata pochissimo. Attorno a lui la gente mormorava, perplessa, fino a che l’intera piazza, dove fino a poco prima imperversavano ancora i festeggiamenti, si era fusa in un unico brusio simile al ronzio di un moscone. E poi aveva sentito qualcuno gridare. Aveva percepito la terra sotto di sé tremare violentemente, e il panico era stato immediato. Dopo un rapido sguardo al cielo, e a ciò che stava realmente accadendo, era stato il caos più completo. Avevano cominciato a fuggire, mentre uno strano alito di vento si gettava come un’onda nelle strade: un’aria gelida con strani sbalzi torridi laddove giungevano i raggi solari. Era anche ruzzolato a terra inciampando in un’aiuola, e in quell’attimo, prima di rialzarsi, era riuscito a scorgere qualcosa che gli aveva stretto la gola dall’orrore. Vermi del sottosuolo, che emergevano dal terreno dimenandosi come disperati, fino a giacere inerti dopo qualche secondo, rigidi come steli secchi. Morti. No, no, no. Quel monosillabo ronzava nella sua mente come le mosche attorno ad un cadavere. Chi fosse stato accanto a lui in quel momento, avrebbe potuto accorgersi di come stesse continuando a mormorarlo a sé stesso. Ma adesso la gente non ascoltava. Gridava soltanto, correndo in ogni direzione, cercando riparo o chissà cos’altro. Altri invece se ne stavano semplicemente immobili, a fissare quel cielo mutevole in colori e forme, con nuvole che parevano aliti gelidi cristallizzati nella volta celeste in cui troneggiava quel sole pallido, così tremendamente simile all’iride velato di un moribondo che stava dando l’ultimo sguardo al mondo prima di cadere nell’oblio. Cominciò ad urlare anche lui, e la sua voce rintronò nella maschera di Halloween. Accelerò il passo sentendo già il petto che gli doleva, come se l’aria gli graffiasse i polmoni. Non avrebbe retto a lungo. Fuggire... dove? Casa sua era lontana, dall’altra parte della città. Mille pensieri nella sua testa: correre, trovare gli altri. Fuggire, e soprattutto non guardare indietro. Sentiva che se l’avesse fatto, sarebbe stata la sua condanna. E non doveva rimanere fuori. Non poteva. Non voleva. Si infilò nella prima porta che trovò svoltando l’angolo e la richiuse con un fragore tale che temette di averne demolito i cardini. Si lasciò alle spalle una marea incontrollata di persone, nei loro abiti svolazzanti che li tramutavano in spettri, teschi, vampiri e zombie, mentre si accalcavano come una mandria folle dal terrore. Armeggiò con la serratura, imbrogliandosi più volte nelle azioni mentre le mani si muovevano come spinte da una volontà aliena, tremanti e sudice di sudore. Solo il clack del chiavistello riuscì a mettere la parola fine alla sua soffocante agitazione. Era immerso nella penombra, a parte la luce che trapelava dall’esterno attraverso le serrande semichiuse. Attivò più volte un interruttore a muro: niente corrente. La mano corse immediatamente alla tasca, traendone fuori il cellulare. Avviò la chiamata col primo numero trovato in rubrica, ma gli rispose solo un ronzio acuto. Osservò il display e non scorse alcuna tacca sull’indicatore della ricezione, né tantomeno l’avviso dell’operatore corrente. Niente linea. Maledizione! Annaspò dentro la maschera e con un gesto carico di stizza se la strappò dal viso gettandola a terra. Il falso volto di gomma ghignante, quello di un diavolo, lo osservava dal parquet che ricopriva il pavimento del locale, come se stesse prendendo in giro la sua angoscia. Solo allora trovò il tempo di dare un’occhiata in giro. Era una taverna, completamente deserta. Le bottiglie di liquore erano disposte ordinatamente negli scaffali dietro il bancone, e qualche boccale pieno a metà era rimasto abbandonato su alcuni tavoli. L’orologio sulla parete era fermo, ad indicare le 07:22 del 1° Novembre: si era bloccato praticamente qualche minuto prima, o forse non era mai partito. Dalla canna del rubinetto fuoriusciva un sottile getto d’acqua che sciabordava lievemente sul fondo del lavandino d’acciaio inossidabile. Era come se quel locale fosse stato pieno solo fin ad un attimo prima, eppure tutto il resto era ancora in ordine. Nessun segno di calca, nessuna sedia rovesciata a gambe all’aria come strascico di un fuggi fuggi generale. Ma non era solo. C’era un uomo, seduto ad uno dei tavoli accanto alle persiane semichiuse attraverso il quale filtrava l’insana luce solare. Si meravigliò quasi di non averlo notato prima. Riusciva a distinguere ben poco di lui, non più di una figura curva avvolta in un drappo di fibra di lana scura, col cappuccio calato sul volto su cui portava una maschera molto simile alla sua. Teneva accostata alle labbra una piccola ciotola di legno, reggendola con entrambe le mani guantate, e ne sorseggiava il contenuto lentamente, come se si trattasse di una rarità che andava assaporata goccia a goccia. “Ehi!” gridò il giovane per attirare l’attenzione. La sua voce risuonò come una scudisciata in quel locale vuoto. Lo sconosciuto sembrò ignorarlo deliberatamente. Andiamo bene! Il ragazzo si precipitò verso una parete su cui aveva scorto l’insegna di un telefono pubblico. La cornetta gli restituì solo un crepitio sconnesso. Per tutta risposta, il giovane la sbatté con violenza sul muro. Si diresse verso le finestre, chiudendone alcune come a volersi isolare dal mondo esterno. Non osava neppure sbirciare fuori, aveva troppa paura di ciò che avrebbe potuto scorgere. Allo stesso tempo non riusciva a stare fermo, né tantomeno lucido per riuscire a ragionare sulla situazione. Solo allora lo udì. Lo sconosciuto sogghignò, o almeno sembrò che l’avesse fatto, a giudicare dal tono di voce ovattato dalla maschera che gli celava il volto. Era una voce carica di sarcasmo, tuttavia era come carta vetrata per le orecchie. “Tremi più delle foglie in autunno, David. Ci si illude che il primo freddo sia dovuto al clima, ma è solo il respiro dei morti. Esattamente ciò che aleggia adesso.” Come diavolo...? Il giovane si voltò verso l’altro con gli occhi sgranati dallo sgomento. “Cosa...? Come sai il mio nome?” Un attimo di pausa. “Chi sei?” Incredibilmente, l’uomo gettò indietro la testa esibendosi in una fragorosa risata. “Io ti conosco. O forse no. O forse è più corretto dire che tu conosci me, ma non sarebbe nemmeno la verità. Oh, quale contraddizione!” Rise ancora per un attimo, facendo balenare nella mente di David il forte sospetto che costui non era propriamente in sé. “E d’altronde, in questo momento ha davvero importanza? Guarda là fuori. Non è sublime? Un’alba di fiamme e ghiaccio, così rara nel corso dei tempi. Sapere chi sono io, o chi tu sia, è in realtà l’ultimo dei pensieri che possa aver valore, in un momento simile. E lo sai anche tu.” Sebbene non avesse nemmeno ben inteso il significato delle parole dello strano individuo, David si costrinse a sbirciare oltre il vetro. A parte qualche ritardatario, ormai le strade erano completamente deserte. Tutti rintanati... “...come conigli nelle tane.” L’uomo parve finire il suo pensiero. David si girò verso di lui. La luce insana di quel giorno lo colpiva di striscio, eppure non riusciva a scorgere null’altro, a parte quella maschera, il cappuccio e il drappo nero. “Ma non servirà a niente.” “Cosa ne sai tu?!” C’era qualcosa in quell’uomo che non quadrava. Parlava la sua lingua, e allo stesso tempo gli aforismi di cui riempiva le proprie frasi lo rendeva estraneo, alieno. L’individuo dal volto coperto si limitò a trarre un altro sorso dalla ciotola che ora reggeva con una sola mano, come se tenesse un calice di vino pregiato. C’era da chiedersi come riuscisse a bere con l’impedimento della maschera. “Io?” fece lui dissimulando stupore. “Io non so niente. Sapere vuol dire legarsi alla verità, e soprattutto accettarla. Ma io non ho dovuto accettare nulla. Ci sono nato, con questa consapevolezza. Ci siamo nati tutti. Solo che ci si dimentica ben presto del fatto che prima o poi ci sarà un ultimo tramonto, nella vita, e alla fine ci si comporta come se questo fatto fosse eresia pura, qualcosa di impossibile da ammettere. Una fine che prelude ad un inizio. Un’era che si chiude per lasciare spazio ad un’altra. E’ così semplice, eppure così difficile da capire, per alcuni. E tu? Riesci a comprendere, David?” Dall’esterno giunse un boato così fragoroso da far vibrare i vetri delle finestre. David gridò di riflesso, buttandosi contro la porta con la spalla temendo che potesse spalancarsi da un momento all’altro. Sentì una forza immane premere contro i battenti, facendo cigolare i cardini, e dovette puntare i piedi per opporre resistenza. Infine anche quella pressione cessò, concedendo al cuore del ragazzo di riprendere a battere più normalmente. In tutto quel fracasso, gli erano balenati nella mente mille dubbi. Niente elicotteri, niente aerei, nessuna sirena per le strade. Dov’erano tutti? “Non agitarti, David” esclamò l’uomo, con tono così gioviale da rasentare lo scherno. “Prima o poi tutto finirà. Non resta che aspettare. Che vuoi che sia l’attesa di qualche minuto paragonata ad un letargo di migliaia di anni?” “Finirà cosa?” Il giovane si proiettò verso di lui sbattendo un pugno sul tavolo per poi allontanarsi nuovamente aggirandosi per il locale come una tigre in gabbia. “Ne ho abbastanza delle tue idiozie da profeta!” Si serrò i pugni nei capelli e per un attimo fu in procinto di strapparseli. Che poteva fare? Fondamentalmente, era in trappola. “Dobbiamo... devo... cribbio, devo fare qualcosa! Non posso rimanere qui! Se solo riuscissi a...” “A fare cosa?” L’uomo lo interruppe. David non riusciva a capire cosa lo mantenesse così calmo. Forse era proprio quell’apatia il primo segno della sua insanità di mente. “Fuggire? Cercare i tuoi conoscenti? Tu non vuoi che ci sia qualcun altro perché intendi curarti di lui, David. Soltanto, tu non vuoi morire solo.” Quell’affermazione sputata come un insulto fece montare la collera in David come un fiume in piena. “Taci! Dammi una mano invece di...” “Ma io non devo fare nulla!” Di nuovo quella risata che stridette come un gesso su una lavagna. “E’ stato già fatto abbastanza. Vi ho osservato. Avete riso, avete corso per tutta la notte, travestiti da ciò che temete di più. Avete messo in moto tutto, dato il via all’ordine naturale delle cose.” “Che cavolo stai...” “Halloween!” L’uomo si rilassò sulla sedia. “E’ così che chiamate la notte in cui si crede che si risveglino gli spiriti sulla terra, vero? La vigilia in cui ci si traveste da spettri, nella convinzione di scacciarli... Ebbene, voi non fate altro che chiamare. Nominare significa evocare. E quando si evoca, c’è sempre una conseguenza a cui bisogna essere pronti. Come questa.” David non riusciva più a capire il senso delle sue parole. Più andava avanti, più si convinceva che farneticasse. Soprattutto, parlava come se tutta la faccenda non lo toccasse minimamente. Lo strano individuo lasciò ciondolare il capo oltre lo schienale della sedia. “Ah, come la sento. E’ quasi assordante.” “Che cosa?!” “La paura, David! Sei talmente fuori di te dal terrore che i tuoi pensieri vibrano come voci. Voci! Impaurite, quasi senza senso, almeno per me. Continui a ripeterti che non è possibile, vero? Quando la gente non vuole ammettere ciò che i suoi stessi sensi riescono a percepire, si rinchiude in un’armatura effimera che rende ciechi e sordi. Ma l’ineluttabilità delle cose non è cosa che si può governare semplicemente ignorandola. Se non credi in qualcosa, vuol dire che non esiste? Non c’è blasfemia più grande...” Alzò il capo fissando David. “Quante volte, nella storia, si è ripetuto questo tragico errore? Per quanto tempo si è protratto? Guardati! Persino tu sei prigioniero di questa insana menzogna, terrorizzato di udire quelle tre semplici quanto fatali parole, subdole nel colpire, come il coltello del ladro e del meschino assassino...” Inclinò appena il capo come a sottolineare il concetto che stava esprimendo: “... ‘è tutto vero.’ ” “PIANTALA!” L’incredulità e lo sgomento lo stavano soffocando. Non ascoltarlo, non ascoltarlo! Nemmeno quell’urlo sembrò comunque mettere a tacere la flemmatica parlantina dell’individuo, che fece ondeggiare il contenuto della ciotola con un lieve movimento del polso. “Ma non ti sto biasimando, sai, David? E’ molto meglio ribellarsi alla verità che affrontarne l’orrore, specie se la verità riguarda la morte, la fine, e l’oblio. E’ questo il vero terrore. Non l’avvenimento giunto come un lampo a ciel sereno, ma la consapevole angoscia dell’attesa. La conoscenza grava più dell’ignoranza. E’ un fardello che può salvare la vita ad un uomo, ma allo stesso tempo può ucciderlo per vie più lunghe e strazianti.” “Ma si può sapere di che diavolo stai parlando?!” Ormai David era fuori di sé, troppo scosso per riflettere, al punto da rischiare di perdere totalmente il controllo delle proprie azioni. E’ pazzo. E’ solo un pazzo! Si artigliò i capelli andando avanti e indietro nell’androne del locale, con in sottofondo soltanto il rivolo d’acqua che sgorgava dal rubinetto. Fhhssshthhtttsssfffsshttt... Quando l’uomo parlò di nuovo, la sua voce era diversa, più rauca, e quasi lo costrinse a voltarsi nella sua direzione. Nel riverbero di quella luce innaturale, la sua maschera spiccava come un volto di sangue, e mentre pronunciava la risposta, David sentì un’onda di gelo scendere giù per la schiena. “Parlo dell’ultimo giorno, David. Di una lunga attesa. Di una fine. Di un inizio.” Il giovane ebbe solo la fugace sensazione dello sguardo sotto quella maschera. Ma fu abbastanza per paralizzarlo. Si sentì artigliare letteralmente il petto. Annaspò in cerca d’aria, mentre accanto a lui l’acqua che sgorgava dal lavandino iniziò a fumare, sempre più incandescente; all’improvviso s’udì un gorgoglio sommesso provenire dalle tubature, e una strana melma, rossa e rovente, cominciò a colare dalla canna addensandosi sempre più nella conca del lavello, iniziando a corroderlo. David la osservò con occhi sempre più sgranati, mentre scuoteva la testa come a convincersi che ciò che aveva sotto gli occhi non poteva né essere spiegato, né essere reale... “Guardami, David.” David fissò la maschera dell’uomo. Non aveva aperture per gli occhi, eppure era come se li vedesse. Baluginavano oltre la plastica morbida, fissi su di lui. Inequivocabilmente rossi. Annaspò con violenza, sentendo il petto irrigidirsi per l’orrore. Cominciò ad indietreggiare verso la porta. “Oddio... oddio, oddio...” “Dio? Oh no, non invocare alcuna divinità in questo momento. E’ fatica sprecata.” L’uomo si alzò puntandolo come uno squalo, a passi lenti. “Gli Dèi del mondo, in questo momento, stanno ridendo di voi. Godono della vostra paura. Vi siete cullati nella vostra dolce illusione di onnipotenza quando invece, fin dai tempi antichi, esseri molto più potenti vi hanno visto nascere... vi hanno concesso di esistere. Fino ad ora.” “No! Stammi lontano! NO!” David sbatté con la schiena alla porta, e cercò di sbloccarla senza distogliere lo sguardo dall’altro. Ormai il suo volto era il ritratto del terrore. Non esisteva ciò che aveva appena visto. Non aveva udito ciò che era appena balzato alle orecchie. Tutto ciò era un incubo. Solo un terrificante incubo. Presto si sarebbe svegliato e si sarebbe dato dell’idiota... Non appena i battenti vennero liberati, si catapultò fuori. E lì si fermò. Il sole pareva essersi ingigantito. Il vento che sferzava le strade era pregno di un olezzo indicibile, che gli torse le viscere. E quel gelo... che paradossalmente trasportava insieme a sé lingue di fuoco puro. Per un attimo fu come se fossero faccia a faccia, lui e il disco solare. Poi ciò che era sospeso in cielo si abbatté definitivamente al suolo. David lo sentì arrivare. Lo percepì mentre lo investiva in pieno, come un’immensa onda marina, come uno schiaffo che mandava in frantumi ogni fibra del suo essere, sbriciolandolo in qualcosa che non poteva nemmeno definirsi cenere. In quell’ultimo istante, nella sua mente guizzò una scena, come un ricordo beffardo, troppo assurda per la situazione attuale: la maschera del diavolo abbandonata sul pavimento. La visuale si fermò sui fori degli occhi: dai fori sgorgò sangue, il sangue divenne nero, dal nero eruppe il buio... poi non ci fu più niente. La luce fredda e innaturale del giorno inondò quell’area ora priva di finestre, di porte... di tutto. L’intera palazzina era stata completamente rasa al suolo, e di essa non erano rimasti che pochi frammenti dei pilastri portanti che come macabri pinnacoli si ergevano dal terreno sconnesso, ricoperto di roccia e polvere. L’uomo rilassò i muscoli camminando lentamente in mezzo ai detriti accumulati al suolo. Attorno a lui, lo spazio più completo. Di interi grattacieli, di case, di negozi, di un numero incalcolabile vite umane non era rimasto altro che una distesa di sabbia e cenere. Guardò la propria mano guantata. La ciotola era andata in frantumi a causa dell’onda d’urto, e il suo prezioso contenuto era sparso sul suo palmo. Un liquido vermiglio a tal punto da essere quasi tagliente per la vista, nel riverbero di quella luce così glaciale, priva di calore. Sangue. Chiuse il pugno come a sottolineare il proprio rammarico e si portò l’altra mano al volto, posandola sulla maschera da demone. Un attimo dopo, se la tolse, assaporando sulla propria pelle quella brezza che trasportava note di ebbra libertà, tradotte in centinaia, migliaia, milioni di voci identiche alla sua, sparse per il globo e unite in un unico, delirante canto. Finalmente liberi, dopo secoli di paziente attesa. L’essere sogghignò. Era come se la maschera non se la fosse mai tolta. Era come se si fosse impressa nella sua pelle, alterandone i tratti somatici. Gli zigomi allungati, le iridi color rubino, il ghigno che aveva dipinto sulle labbra, feroce e spaventevole come le zanne che lo adornava… La prigionia era finita. Alzò lo sguardo verso quell’alba pallida che coronava un nuovo mondo. L’alba di Halloween. L’alba degli spiriti e dei demoni. E rise.
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