Category: Racconti FantasyItalia
Review Title: Il Ghaor - Capitolo I


LA NASCITA Dieci anni dopo quella notte Il sentiero che attraversava la foresta era silenzioso nella luce del primo mattino. Perfino gli uccelli avevano scelto di tacere, come se il momento dell’alba fosse così solenne da non dover essere disturbato. Ad est, il sole era sorto pigramente, inondando la valle. Un coniglio sbucò dalla tana che aveva scavato fra le radici di un frassino e con titubanza annusò all’esterno per poi zampettare timidamente fino ai bordi del viottolo. Il suo obiettivo era una pozza d’acqua piovana che si era raccolta dalla pioggerellina che si era posata sulle fronde quella notte, leggera e delicata come la carezza di una madre sul volto del proprio bambino. Bevve rapidamente, avidamente, finché non si irrigidì, e alzò il capo, muovendolo a scatti in tutte le direzioni. Un rumore indistinto in lontananza. Il coniglio rimase immobile, atterrito, con le orecchie tese. Dopo qualche minuto, i sassolini del sentiero battuto cominciarono a vibrare impercettibilmente. Il suono si accrebbe fino a diventare riconoscibile all’orecchio umano: un calpestio di zoccoli. L’animale schizzò repentinamente nella propria tana, pochi secondi prima che restasse travolto dai due cavalli lanciati al pieno galoppo lungo il sentiero. Erano due superbi stalloni, entrambi pezzati, di razza pregiata. Al loro comando, due giovani uomini, che ridevano come se quella corsa fosse il gioco più esilarante della loro vita. -Tutto qui quello che sai fare?- urlò il ragazzo che era in testa al duo. Si voltò per controllare la situazione, socchiudendo gli occhi castani quando i capelli gli finirono sul volto a causa del vento dovuto al galoppo. L’amico alle sue spalle rispose con una smorfia di falso scherno e spronò maggiormente il destriero con un colpo di tallone. Dopo qualche decina di metri, i due animali si affiancarono. I due giovani si guardarono in viso, entrambi con un’espressione di sfida, poi sorrisero. Il secondo ragazzo fessurizzò gli occhi prima di rivolgersi al compagno. -La scommessa è ancora valida, Rohym? A chi arriva primo alla cascata?- Royhm scoppiò a ridere, buttando all’indietro il capo senza tuttavia perdere né il ritmo né la concentrazione della corsa. –Credevi davvero che l’avessi annullata? E poi… parli come se fossi sicuro di vincere… Ma finirai per massacrare quel povero cavallo, Artysh, se continuerai a balzellargli sulla schiena in quella maniera!- Artysh rispose facendogli la linguaccia, e con un colpo di tallone incitò il destriero ad accelerare, passando in testa. Rohym lo lasciò fare, sapendo che comunque mancavano ancora un paio di miglia al luogo d’arrivo. Lo stallone che montava era un superbo bastors, una delle razze più ricercate, di colore marrone scuro. Artysh invece prediligeva i gyrth: zampe più sottili, ma più snelli e veloci. Non era solo una gara tra cavalieri, quindi, ma anche tra cavalli. Tuttavia, erano i cavalieri che potevano fare la differenza laddove le caratteristiche della razza poteva difettare, e di questo erano consapevoli entrambi. I due destrieri divorarono il terreno battuto in una corsa frenetica. Ben presto la foresta venne svegliata dal loro calpestio concitato. Spesso e volentieri i due ragazzi non dovevano nemmeno spronarli al galoppo: a volte, dalla stalla di Bills, si udivano i nitriti degli animali che attendevano pazientemente il loro turno per essere liberati dalla strettoia del box. Scalpitavano come indemoniati, ed era quasi un piacere vederli sfogare la loro ebbrezza di libertà non appena venivano imbastiti per la cavalcata e lanciati dritti nel cuore della foresta. Dal canto suo, Rohym condivideva quella loro frenesia. Galoppare all’alba, quando tutta la valle del Gharra era ancora silente, avvinta negli ultimi sonnolenti e immoti strascichi della notte, gli infondeva un senso di beatitudine che non riusciva a trovare in nessun’altra situazione. Semplicemente, lo realizzava, in tutto e per tutto. Artysh si voltò indietro, reggendosi alle redini con una mano sola per poter guardare meglio alle proprie spalle. -Che dici, Rohym? Sei ancora sicuro della scommessa?- -Eccome! Ma mi sono stancato di questo rettilineo! Movimentiamola un po’!- -Il sentiero che costeggia il Nibeyrth?- -Aggiudicato!- Il cavallo di Artysh nitrì quando egli gridò per incitarlo a correre più veloce. Sembravano due dardi nel vento. Con un repentino strattone alle redini, i due stalloni abbandonarono il sentiero battuto per inoltrarsi nel folto. Cominciò quasi una danza dei destrieri mentre galoppavano con salti e scartate improvvise per evitare arbusti e radici. Nella foresta si udiva soltanto quello scalpitio furioso che a tratti si interrompeva quando gli animali saltavano per evitare gli ostacoli. Rohym gridò di soddisfazione, col vento che gli sibilava nelle orecchie. Solo il rumore del vento, e quello del galoppo. Quella era la vita. Con un colpo di tallone, spronò il suo destriero al massimo, affiancando quello di Artysh. Ben presto il rumore cadenzato di salti e scartate divenne pressoché perfettamente sincrono. Gli alberi di fronte a loro cominciarono a diradarsi un poco, e il sentiero accidentato sfociò in una piccola distesa erbosa che si allargava progressivamente fino ad ampliarsi di colpo in corrispondenza del Nibeyrth, uno specchio d’acqua che copriva un’area grande almeno quanto Damshar. Il sole si rifletteva nel lago dalle acque immote e cristalline, proiettando un riverbero accecante. -Riva sinistra o destra?- urlò Artysh. -Nessuna delle due!- -Ma sei impazzito?- fu la risposta dell’amico, ma stava ridendo. Con un grido di entrambi, carico di euforia, i due stalloni si lanciarono dritti nel lago, sollevando due ali cristalline di spruzzi al loro ingresso. Cominciarono a nuotare, e il cavallo di Rohym iniziò a guadagnare terreno. Rohym rise rabbrividendo mentre l’acqua gelida gli solleticava le gambe fino a metà coscia. I destrieri sbruffarono di sollievo, godendosi la rinfrescata. Quando furono dall’altra parte, Rohym non ebbe esitazioni e spronò il cavallo al galoppo estremo, seguito subito da Artysh. Seppur lieve, il distacco era ormai abbastanza significativo per non consentire l’immediata ripresa. -Forza, Artysh! Sei lento!- Il compagno rise alle sue spalle e Rohym lo udì mentre gridava per aumentare il ritmo della corsa. Di nuovo il vento, e il sole dritto negli occhi. Ormai mancava poco alla cascata. Col passare dei secondi, il cavallo di Artysh lo affiancò nuovamente. I due giovani ridevano, presi dall’entusiasmo della sfida. Ben presto alle loro orecchie giunse un rumore caratteristico: lo scrosciare dell’acqua. La cascata era vicina. Con un ultimo colpo di tallone, lanciarono le cavalcature ad una corsa sfrenata. Gli alberi di fronte a loro sembravano farsi da parte al loro passaggio, finché d’improvviso non si diradarono. Erano giunti in prossimità del torrente Hator, che nasceva da una delle innumerevoli vette minori per giungere a valle terminando la sua discesa in una splendida cascata a ridosso della parete rocciosa. L’impeto della corsa era tale che nemmeno tirando le redini riuscirono a frenare i cavalli del tutto. Finirono un’altra volta nell’acqua, nel torrente ancora più gelido del lago. Solo quando i destrieri si fermarono completamente, camminando fino a riguadagnare la riva, i due ragazzi scoppiarono a ridere, sfogando l’eccitazione della corsa. -Insieme… di nuovo- ridacchiò Artysh scuotendo la testa. –Ci sarà mai un vincitore in questa sfida?- -Chi può dirlo?- Rohym smontò da cavallo, stiracchiandosi per sciogliere i muscoli. -Per il momento, mi va bene così… tu cosa ne dici?- L’amico sorrise in risposta e smontò a sua volta. Condussero i cavalli fino alla cascata tenendoli per le redini, e nell’attesa che pascolassero e si abbeverassero, si sedettero sull’erba, godendosi il caldo sole del mattino. Artysh strappò un filo d’erba e se lo mise in bocca, giocherellandoci coi denti. –L’ultimo affare di Bills è stato un successo. Non trovi? Guarda che stalloni. Comincio a chiedermi da dove provengano…- -Sicuramente non dalla valle. Non ho mai visto cavalli selvatici nel Gharra in tutta la mia vita che appartengano a questa razza. Bastors e gyrth, ultimamente, cominciano anche ad essere merce rara…- Artysh si voltò verso il cavallo di Rohym. –Hai sentito? Ti considera una semplice ‘merce’- disse ridacchiando, e in tutta risposta il destriero brontolò vibrando le froge. Rohym scosse la testa divertito, poi si sdraiò con le mani dietro la nuca. Gli piaceva percepire la frescura umida del terreno. –Tuttavia, sul raro non scherzavo affatto. Ultimamente il numero di esemplari notevoli sta calando vertiginosamente… - Artysh si sciacquò il viso nel torrente, scrollando il capo per sistemarsi i capelli, e si voltò verso l’amico. Stavolta l’espressione sul suo viso era di completa serietà. –E a cosa pensi sia dovuto?- -Sinceramente non ne ho la minima idea. Negli ultimi anni è andato tutto liscio e i commercianti non sono certo mancati. Ma adesso è parecchio che non si scorgono più carovane passare da queste parti, non so se l’hai notato anche tu…- -Questo è vero. Ma non significa che i cavalli non ci siano…- -Non ho detto questo. Forse non dipende dalle mandrie. Dipende proprio da chi li vende… magari hanno clienti migliori di un grasso e brontolone campagnolo di una valle remota…- Artysh rise solo per un istante prima di accovacciarsi nuovamente accanto all’amico. –Si chiama commercio, Rohym. Ognuno sceglie chi fa il prezzo migliore.- Aggrottò la fronte per un secondo fissando l’amico prima di sdraiarsi accanto a lui. –E in fin dei conti, ha importanza per noi? Siamo solo stallieri… lasciamo che sia Bills ad occuparsi degli affari… e che i cavalli li lasci a noi…- Rohym sogghignò. Artysh era sempre in grado di fugargli anche i pensieri più tetri con una semplicissima frase, che aveva l’incredibile effetto di un colpo di spugna. –A proposito… non credi che stiamo tardando? Ci ha detto di far sgranchire le gambe a quei due stalloni, non di portarli al galoppo per tutta la valle…- -Da quando ti preoccupi delle lamentele di Bills? Io ormai chiudo automaticamente le orecchie quando urla…- -Mai preoccupato, a dire il vero. Ma sto pensando a Fedra. Si starà chiedendo dove sia finito. Non vorrei si ingelosisse.- Artysh scoppiò a ridere. –Parli della tua cavalla come se fosse un’amante…- e si rizzò a sedere, dando una pacca alla spalla dell’amico. –Allora andiamo, spezzacuori, meglio non farti tardare prima che versi calde lacrime per te…- scherzò, ricevendo in risposta uno scapaccione dietro il collo. –Così ne approfitterò per vedere se anche il mio Namhor ha sentito la mia mancanza…- aggiunse riferendosi allo splendido stallone di razza gyrth che possedeva. Con un fischio, richiamarono i cavalli, che trottarono obbedienti da loro: erano stati addestrati bene. Rohym montò in sella e attese che Artysh facesse lo stesso prima di gridare: –A chi arriva prima!- Quel grido fu come un tuono che spronò i due destrieri a lanciarsi al galoppo, scomparendo ben presto nella foresta che ricopriva la valle. La figura tarchiata di Bills attendeva appena oltre il cancello macilento della stalla. Tamburellava sui bicipiti, in attesa, e la sua espressione non prometteva nulla di buono. Chiunque l’avesse visto, avrebbe potuto scambiarlo tranquillamente per una statua di granito, tale era la sua immobilità. Fu solo quando udì il rumore del galoppo e quando scorse i suoi due stalloni sbucare dalla foresta che cominciò a rilassare i muscoli, ma non per questo a calmare la propria ira. Non attese nemmeno che i due ragazzi potessero smontare prima di apostrofarli duramente: -Tre ore! Tre ore di assenza! Ho i cavalli che nitriscono dalla gran fame, e Gwain deve essere strigliato! C’è da riparare anche la tettoia del fienile, altrimenti troveremo solo erba marcia dopo la prossima pioggia che nemmeno gli asini si cureranno di mangiare!- Sentendo ancora i due giovani ridere fra loro, s’inalberò ancora di più, facendo sì che il doppio mento traballasse scandendo ogni sua parola. –Insomma! Non vi pago per divertirvi! Ora filate dentro, e se per stasera non trovo pronto quello che vi ho detto, andrete a curare i bovi della fattoria di Kleath! Sbrigatevi!- Rohym condusse lo stallone reggendolo per le briglie, sforzandosi di trattenere le risa. Dietro di lui, Artysh cercava, senza troppo successo, di fare altrettanto. La frescura della stalla li accolse, coi suoi odori familiari anche se non troppo gradevoli a molti. Ma ci avevano ormai fatto l’abitudine. Furono lesti a sciogliere i finimenti per poi condurre i destrieri nei rispettivi box. Rohym afferrò il forcone appoggiato al muro e lo lanciò ad Artysh per poi recuperarne un altro per sé. I cavalli nei recinti nitrirono di soddisfazione quando finalmente venne dispensato loro il tanto agognato pasto. -Scalpitano- disse Artysh ad un tratto. –E non do loro torto. Rimanere chiuso in questa topaia soffocante farebbe venire il nervoso a chiunque…- -Già…- Rohym infilzò il forcone a terra e vi si appoggiò. –Ma lo conosci Bills. Non si fida a tenere un recinto esterno. Teme che possano rubarglieli… Non capisce che tenendoli rinchiusi ne peggiora soltanto il carattere…- -Lui e le sue fissazioni…- i due continuarono col loro lavoro, fino a che Artysh non spezzò di nuovo il silenzio. –Hai mai pensato di prendere Fedra e di galoppare oltre i confini della valle? Lontano da qui?- L’amico si irrigidì nella sua mansione, senza più muovere un muscolo, il forcone sospeso a mezz’aria. Passò qualche secondo di silenzio, che parvero minuti, poi Rohym scosse la testa. –Non posso. Sai perché.- -Lo so. Ma ciò non toglie che un giorno potresti farlo.- -Ma non intendo farlo. Per ora la valle mi basta. Devo farmela bastare…- Artysh si accorse dell’amarezza nella voce del compagno. –Nulla è deciso nella vita, amico mio. A dire il vero io sono curioso. Non sono mai uscito dai confini del Gharra. E le sue montagne cominciano a starmi strette…- Rohym si voltò di scatto verso l’amico. –E’ facile parlare per te! Non hai i miei stessi vincoli…- poi si accorse di aver alzato la voce, per di più dicendo qualcosa che non doveva. Artysh rimase in silenzio. Rohym si diede del perfetto idiota, e si avvicinò a lui posandogli una mano sulla spalla. –Perdonami. Non volevo dire questo.- L’amico scosse la testa in segno di noncuranza, tuttavia Rohym lo conosceva abbastanza bene per sapere che erano cose che lo toccavano in profondità, dolorosamente, come la puntura di uno spillo. Giakon era morto prematuramente, di un male che nessuno era riuscito ad arrestare e tantomeno impedire che la morte sopraggiungesse in brevissimo tempo. Artysh aveva assistito al repentino declino del padre, totalmente impotente, e nonostante fossero passati più di tre anni, non riusciva ancora a capacitarsi del fatto. A Rohym invece era accaduto il contrario… -Rohym!- urlò Bills, affacciandosi all’interno. –Vieni qui, c’è del lavoro da fare. Mi serve una mano. Muoviti!- Il giovane scrollò le spalle e si avviò per uscire dalla stalla. Sarebbe stata una mattinata intensa di lavoro, ed era appena l’alba. Il sole era alto, e la calura quasi soffocante. Non un alito di vento. Rohym si stava dirigendo verso la propria dimora, facendo solamente tappa in una bottega per poter acquistare pane e frutta fresca. Alzò lo sguardo al cielo sgombro di nuvole. Una parte di sé era felice nella prospettiva di una giornata solare, l’altra invece agognava una qualsiasi nuvola che potesse concedergli il beneficio, o la carità, di un po’ d’ombra e di frescura… Giunse correndo sotto il portico, e prima di entrare udì chiaramente il nitrito di Fedra nel recinto retrostante la casa. Esitò, poi girò l’angolo e si diresse da lei. La splendida cavalla color terra bruciata scalpitò nel vederlo, manifestando chiaramente la sua voglia di galoppare. Rohym le carezzò il muso, sentendola sbruffare di contentezza. –Più tardi, Fedra. Più tardi- sussurrò con voce suadente. L’animale agitò il capo, quasi ad esprimere il suo disaccordo, poi Rohym le diede una dolce pacca sul fianco per farla di nuovo allontanare nel centro del recinto, ed entrò in casa. Il fuoco scoppiettava allegramente nel focolare, lambendo un paio di spiedi su cui erano stati infilzati due grossi tranci di carne di cervo. Rohym depose le vivande appena comprate sul tavolo già imbandito per il pranzo, aggrottando la fronte. Stava migliorando, tuttavia voleva evitargli certe faccende, specie quelle che avevano a che fare con fiamme e coltelli. Anzi, a dire il vero, voleva evitargliele tutte… -Rohym, sei tu?- La voce del padre provenne dal ripostiglio. Il ragazzo lo raggiunse. Ramosh gli dava le spalle, e stava armeggiando con un coltello nel tentativo di aprire una bottiglia di sidro. Rohym si accostò a lui e si accorse immediatamente del rivolo vermiglio di sangue che gli segnava la mano: due tagli spiccavano sull’indice e il medio della mano sinistra. Con un movimento rapido, tolse il coltello dalla mano del genitore e lo scansò fissandolo in volto. –Te l’avrò detto mille volte. Queste cose lasciale a me!- Ramosh fece spallucce. Gli occhi vitrei, senza sguardo, che scorgevano solo il buio, fissavano un punto imprecisato oltre la spalla del figlio. –Non trattarmi come se fossi un’inutile vecchio che non sa nemmeno sistemarsi i pantaloni… Ho solo forzato troppo sul tappo, e mi è scivolata la lama…- Rohym represse un gesto di stizza. Nemmeno lui sopportava di doverlo trattare in quella maniera, tuttavia la sua rabbia era dettata solo dalla preoccupazione. Non voleva provare compassione per suo padre. Due anni prima, durante una battuta di caccia, erano stati aggrediti da un branco di lupi, che contava cinque esemplari. Sebbene fossero armati, verso la fine della lotta uno degli animali aveva attaccato suo padre, e con un’artigliata lo aveva ferito agli occhi, come testimoniavano le cicatrici che come solchi scavavano il suo volto più di quanto avrebbero potuto fare le rughe della vecchiaia, attraversandogli entrambe le palpebre. Da allora il mondo di Ramosh era precipitato nel buio, tuttavia l’uomo non si era rassegnato a vivere come un peso morto. Rohym aveva rispettato questa sua fierezza, sebbene dentro di sé sapesse che i giorni in cui andavano a caccia insieme, padre e figlio, non sarebbero mai tornati. -Ci penso io- sentenziò semplicemente, e si appropriò della bottiglia, stappandola con un solo gesto secco per poi portarla in tavola. Ramosh lo raggiunse tastando il muro per orientarsi, fino a sedersi a capotavola. Ramosh si accoccolò di fronte al focolare, attendendo fino a che la carne non fu cotta a puntino, dopodichè la tolse dal fuoco e la pose in tavola. Rohym allungò la mano verso il calore e prelevò uno degli spiedi ponendolo sul proprio piatto, arricciando il naso quando avvertì che il ragazzo gli stava tagliando la carne al suo posto. –Smettila. Non sono una cariatide che non sa badare a se stesso- e lo scostò deciso con un gesto della mano. Rohym decise di assecondarlo, e si mise a mangiare. La carne era ottima. Ne avevano ancora abbastanza, ma avrebbe fatto una puntatine nella foresta quel pomeriggio, tanto da assicurarsene una buona provvista in previsione dei futuri spostamenti della selvaggina in concomitanza col mutare della stagione. Consumarono il pasto in silenzio, e sempre in silenzio Rohym si preoccupò di rimettere tutto a posto, per poi andare in camera sua. Un superbo arco era appeso sul muro: se l’era fabbricato lui stesso, in sudate ore di lavoro, e ne andava fiero. A dire il vero ora era lui che si occupava dei mestieri che prima competevano al padre: in questo modo riusciva a guadagnare qualche soldo extra, fabbricando archi per i cacciatori della sua stessa stregua, oltre alle monete che Bills gli elargiva per il suo lavoro alla stalla. Lo strappò dal muro e caricandosi la faretra sulle spalle sgusciò fuori dalla stanza. Ramosh era in piedi di fronte al fuoco. Aveva l’udito abbastanza affinato per capire cosa stesse facendo il figlio. –Sta’ attento…- Era una frase che gli ripeteva ogni volta che usciva a caccia, e Rohym capiva benissimo il perché. Indugiò sulla porta aperta, contemplando la calotta d’afa che aleggiava sopra la valle, rendendo l’aria quasi annebbiata. –Non preoccuparti. Cercherò di far ritorno entro sera.- Suo padre si voltò dalla sua parte; anche se non poteva vederlo, Rohym ebbe l’impressione che il suo sguardo fosse puntato su di lui. -Non devi fare questo. Non affondare le radici solo perché non c’è terreno migliore. Ed io per te sto diventando una catena.- Prima che il ragazzo potesse replicare, l’uomo continuò: -Hai lo stesso animo dei cavalli, Rohym. Soffrono se tenuti al chiuso, e possono morire se soffocati in uno spazio ristretto… Ricordati. Tu sei libero. Non imprigionarti con le tue stesse mani… né per mano di altri… come me…- Rohym scosse la testa. –Non ti ho mai considerato un peso, padre.- Dopo quelle semplici parole, uscì all’aperto, dirigendosi al recinto. Fedra lo accolse con affetto, rimanendo paziente mentre la imbastiva di sella e briglie per poi sfogare la sua irruenza in un galoppo sfrenato. Rohym ripensò alle parole del genitore mentre cavalcava verso la foresta. Le sentiva amare. E vere. Per chiunque abitasse nella valle del Gharra, era come se il giorno si spegnesse molto prima che nel resto del mondo. Ad un’ora prematura, il sole si nascondeva dietro le guglie montuose che abbracciavano la valle, chiudendola in una conca. Fra tutte loro, il Picco Oblungo si stagliava come un fantasma silenzioso e pronto all’attacco, e nella penombra del crepuscolo sembrava animarsi di vita propria, coi contorni frastagliati che diventavano sempre più indistinti. Rohym sbadigliò mugolando. Gli sembrava quasi che la mascella gli si staccasse da un momento all’altro, come un ingranaggio malamente innestato. Se ne stava appoggiato alla staccionata che delimitava la sua proprietà, con la schiena che a lungo andare aveva iniziato a fargli male laddove poggiava sui ceppi nodosi trasversali. Artysh invece vi si era appollaiato sopra, raccogliendo le gambe per riuscire ad appoggiare i piedi sui legni più alti. Entrambi erano in silenzio, lo sguardo fisso al cielo. Le prime luci della notte cominciavano ad accendersi, una per una, e una brezza leggera stava attraversando la valle, simile ad un sospiro di sollievo. Rohym spesso si perdeva a contemplare il firmamento, molte volte anche di notte. Nelle serate più limpide, il cielo si infittiva di stelle a tal punto che pareva colorarsi completamente di bianco. Più di una volta gli era venuta la tentazione di contarle, e tutte le volte aveva rinunciato, o alla partenza, o dopo aver superato la ventina. -Poche settimane alla stagione delle piogge- sospirò infine Artysh. –Sarà dura per i cavalli starsene al chiuso.- -Sarà dura per noi, soprattutto… - lo corresse Rohym, mentre giocherellava col filo d’erba che aveva appena strappato. Quella verità fece calare ancora il silenzio fra di loro, interrotto solo dal frinire dei grilli. Poco lontano, nel centro del villaggio, si stava accendendo un lieve bagliore: il falò dei racconti, come lo avevano battezzato i due ragazzi. Era lì che di solito si riuniva la gran parte degli abitanti per trascorrere la notte, tra aneddoti e racconti che potevano sapere di vero quanto di menzogna. Era parecchio che entrambi non vi partecipavano. Ormai conoscevano le storie a memoria, e lasciavano volentieri il posto alla generazione di fanciulli che era prodigata nel corso degli anni. Artysh sfoderò un mezzo sorriso. –Noi due avremmo una storia molto più interessante da raccontare… Ti ricordi, Rohym?- Senza che precisasse altro, il ragazzo annuì. –Probabilmente non ci crederebbero mai…- -Però è successo davvero… peccato non poterlo provare…- Rohym sogghignò e guardò verso la catena montuosa. Nel crepuscolo che ormai si stava trasformando in notte, il Picco Oblungo troneggiava nella loro visuale. -Forse nemmeno quello li avrebbe convinti… Di certo smonterebbe molte delle loro credenze…- Fece una smorfia e cambiò il tono di voce scimmiottando quello di un anziano scettico: -Il Picco! Solo uno stolto che desidera la morte può calcarne le pendici. Nessuno può dire di averlo percorso ed essere tornato per raccontarlo…- Artysh rise di gusto a quell’imitazione e si sollevò la maglietta in modo da coprirsi il capo. –Allora siamo fantasmi… dovremmo andare in giro a spaventare un po’ di gente… o anche solo Bills… magari riuscirà a perdere qualche chilo dallo spavento, prima che si incastri nella porta della stalla… potrebbe fargli solo del bene…- I due ragazzi risero di gusto. Passò un lungo attimo di silenzio, prima che Artysh parlasse di nuovo. Ma stavolta la voce era quasi sommessa… -Io me ne andrò da qui…- Rohym rimase inebetito da quell’affermazione. Fissò l’amico, inarcando un sopracciglio, come ad attendere spiegazioni. -Perché mi guardi così? Credi che prima o poi non sarebbe accaduto? Avevi ragione tu, amico mio, qui non ho vincoli particolari che possano costringermi a rimanere… a parte te- disse, dando una pacca sulla spalla all’amico. –Ma non posso limitare il mio mondo al Gharra. Voglio capire cosa c’è all’esterno. Non sono mai uscito dai confini della valle, ma ciò non vuol dire che non possa farlo…- Rohym rimase sinceramente spiazzato da quella rivelazione. Il suo sguardo era indirizzato verso la piazza del villaggio, ma non lo metteva a fuoco: i pensieri non glielo permettevano. –E… quando te ne andrai?- -Presto. Prima che comincino le piogge. O forse dopo. Aspetterò il momento favorevole…- Si voltò verso il compagno. –Vieni anche tu…- Rohym sospirò e chiuse gli occhi. Quale tentazione… Ma la sua voce era amara quando rispose. –Sai che non posso. E non sono arrabbiato nel dirlo. Non abbandonerò mio padre… ha bisogno di me…- Artysh scese dalla palizzata andandosi a sedere accanto al compagno. –Non sarebbe stata una cattiva idea girare il mondo insieme… non ci separiamo da quando…- rise, -beh… da quando siamo nati, credo… siamo amici da sempre…- Rohym sorrise e diede a sua volta una pacca sulla spalla all’amico. –Ti sbagli- lo corresse, e attese che Artysh lo fissasse per un po’ con uno sguardo interrogativo prima di proseguire, -siamo fratelli da sempre… o almeno, così io ti ho sempre considerato…- Questa volta fu Artysh a sorridere. –Già… - disse, tornando a fissare il firmamento, facendo poi scorrere lo sguardo su tutta la catena montuosa che racchiudeva il territorio in una conca dalle alte pareti. –Non so se mi mancherà questo posto…- -Conti almeno di tornare?- -Chi può dirlo? Per noi questa valle è sempre stata tutta la realtà disponibile… solo gli dèi sanno quant’è vasto il mondo, là fuori…- La risposta di Rohym venne distratta da un brusio concitato che arrivò alle sue orecchie. Entrambi i ragazzi ammutolirono, fissando il centro del villaggio da cui avevano udito provenire le voci. Ben presto dal mormorio cominciarono a sollevarsi una o due grida, ma nessuno dei due riuscì ad intendere le parole. Saltarono subito in piedi. -Che diavolo sta succedendo?- -Non lo so- rispose Artysh. –Andiamo a vedere!- Si gettarono giù a capicollo per la piccola collinetta su cui si ergeva la dimora di Rohym. Non ci volle molto per raggiungere la piazza, dove molta gente s’era radunata, in preda ad una concitazione non indifferente. Donne che radunavano i figli, altri che chiudevano le imposte, alcuni che semplicemente, ritti e immobili accanto al falò, rimanevano a guardare il cielo come se da esso fossero stati ipnotizzati. -Che succede?- chiese Rohym ad uno di loro. Questi non spiccicò una parola, ma si limitò ad indicare col braccio un punto imprecisato, in alto. I due ragazzi seguirono la direzione indicata, scrutando le tenebre. Di fronte a loro v’era la sagoma del Picco Oblungo, e al principio non videro null’altro, né nulla di insolito. Fu dopo qualche secondo che riuscirono a scorgere qualcosa. Una specie di bagliore rossastro, lieve eppure ben visibile. Si diramò dalle pendici, brillando come una stella terrena. Rohym avanzò di qualche passo, come a volerla osservare meglio. Ben presto la gran parte della popolazione si era riversata in piazza a contemplare lo strano fenomeno. Il silenzio che era sceso così all’improvviso fra di loro era quasi più inquietante di quello che si stava presentando davanti ai loro occhi. -Cosa diavolo è…?- sussurrò Artysh, una domanda di cui non si sapeva se fosse rivolta a qualcuno o a se stesso. Passò qualche secondo in cui la luce si mise a palpitare, come se fosse il cuore della montagna. Lo sguardo di tutti era puntato su di essa. Fu quando uno strano suono squarciò l’aria che tutti parvero scuotersi, sobbalzando, chi per sorpresa, chi per spavento o entrambi. Qualcuno gridò. Rohym fu costretto a portarsi per un attimo le mani alle orecchie finché non fu certo di poterle staccare senza il rischio di essere assordato. Quel suono era stato un punteruolo per l’udito, come uno stridio acuto di una lama che slittava sul metallo. Alle sue spalle udì qualcuno gridare di mettersi al riparo, ma non vi badò: la sua attenzione era totalmente dedicata a quella strana luce, cercando di capirne la natura. -Guardate! – urlò qualcuno, indicando col dito. La luce si era spenta. Ci fu un attimo in cui tutto tacque, lasciando sovrana soltanto l’oscurità. Quel senso di attesa sospeso tra le persone era quasi palpabile, come se tutti stessero trattenendo il respiro in attesa degli eventi. Non accadde nulla, solo il silenzio. Rohym si stava già voltando verso Artysh per commentare quanto era accaduto quando improvvisamente quel suono stridette ancora nell’aria, sgradevole e assordante. Il ragazzo si voltò nuovamente verso il Picco Oblungo, cercando di carpire qualcosa dall’oscurità calante, e fu allora che vide. Qualcosa volteggiava nell’aria, guizzando in maniera tale che era quasi impossibile seguirli con lo sguardo. A quella distanza, potevano essere scambiati per giganteschi pipistrelli, che si confondevano nelle tenebre e danzavano in cerchio nel cielo, nel punto dove prima era nato il bagliore di luce rossastro. Il panico cadde tra la folla. Alle orecchie di Rohym, che ancora fissava quello strano fenomeno senza riuscire a muoversi né a parlare, giunsero grida disarticolate cariche di terrore, specie quelle delle donne. Molti corsero subito in casa, chiudendosi all’interno e sigillando ogni apertura con tutto ciò che potevano avere sottomano. Solo un piccolo drappello di uomini, tra cui i pochi guerrieri del villaggio, era rimasto compatto di fronte al falò, e tra questi c’erano anche i due ragazzi. Artysh si avvicinò al compagno senza togliere lo sguardo dal Picco. Quel movimento indefinito, fulmineo nelle tenebre era inquietante anche solo alla vista. -Per gli Dèi…- mormorò, affiancando l’amico. –Non ho mai visto nulla del genere…- Prima che Rohym potesse rispondere, ancora quel verso strano, e stavolta fu così assordante da essere doloroso alle orecchie. Tutti quanti nella piazza, nessuno escluso, si portarono gemendo le mani alle orecchie, cercando di lenirne gli effetti. Rohym gridò, sentendo di stare per giungere al suo massimo limite di sopportazione. Credeva che prima o poi gli sarebbe scoppiata la testa… Quello stridio cessò quasi di colpo, senza preavviso, o così almeno parve. Attesero comunque qualche secondo prima di liberare le orecchie e rialzare lo sguardo. Rohym aguzzò la vista, ma non scorse più nulla. A parte le stelle, il cielo era sgombro, e l’oscurità notturna era di nuovo calata sul Picco. -Dove sono finiti?- -Non lo so! Sono scomparsi!- -In nome di Naahrat, cos’erano?- Pian piano la piazza si ripopolò, ma molti preferirono non arrischiarsi all’esterno. Dopo tutte quelle stranezze, susseguitesi una dopo l’altra, nessuno aveva forse voglia né di parlarne, né di chiedersi. Gli uomini si guardavano fra loro, con i taciti dubbi dipinti negli occhi. Quando Artysh posò una mano sulla spalla dell’amico, questi sussultò come se si fosse risvegliato da una trance. Era decisamente teso. E, ancora più insensatamente, affascinato. - Forse quel giorno siamo stati benvoluti dagli dèi- mormorò all’orecchio di Rohym, riferendosi all’episodio della ricerca dello stallone sul Picco Oblungo. Rohym non rispose. Sarebbero passati ancora svariati minuti prima che distogliesse lo sguardo dal Picco, che mai come allora sembrava protendersi sul villaggio, in una muta minaccia di oscura potenza. Ramosh aggrottò la fronte quando udì rientrare il figlio. Era seduto di fronte al focolare, aspettando che l’acqua bollisse nella teiera che aveva posto sulla grata lambita dal fuoco. Il silenzio di Rohym lo aveva colpito e preoccupato allo stesso tempo. Di solito il ragazzo faceva notare la propria presenza, mentre stavolta sembrava che fosse sgattaiolato come un furetto facendo il possibile per non farsi udire. -Rohym? Rohym, che succede?- Il giovane si arrestò prima di sgusciare nella propria camera. Il nervosismo e l’inquietudine che aveva addosso lo irrigidiva, sia nella voce che nei movimenti. Era incredibile: aveva assistito allo strano fenomeno senza batter ciglio, ma ora era più agitato di una belva dietro le sbarre. Per di più gli era balzato in mente che il padre era rimasto indifeso in casa… e se le cose si fossero messe al peggio, non aveva pensato nemmeno a correre a casa per aiutarlo… Si voltò verso il padre, fissando il suo sguardo vacuo. Gli sfuggì un lungo sospiro: mai come ora si rendeva conto di quanto fosse indifeso, e quello stesso pensiero, mischiato al ricordo delle incredibili dote da cacciatore di cui l’uomo una volta poteva vantarsi, gli montarono una strana inquietudine. Quasi rabbia. -Padre, ascoltami bene. Voglio che non esci di casa, per nessun motivo, per un po’ di tempo.- La strana domanda lasciò un teso silenzio tra i due. Ramosh si alzò lentamente in piedi. –E per quale motivo?- -C’è qualcosa di strano- fu la semplice spiegazione di Rohym. –Non so se è un pericolo, tuttavia nessuno è sicuro di cosa si tratti.- -Cos’è questo mistero, Rohym?- -Il Picco Oblungo. Questa notte abbiamo visto qualcosa. Io, Artysh, tutta la gente del villaggio. Si è sprigionato qualcosa dalle pendici… e non siamo riusciti a capire di che cosa si tratti. Quindi, finché non sarò sicuro che non c’è pericolo, ti voglio qui in casa, dove ti posso trovare. Mi sono spiegato?- Il tono era perentorio, che non ammetteva replica. Per giunta, Ramosh non ebbe nemmeno il tempo di farlo; Rohym voltò le spalle al genitore e guadagnò la propria camera, buttandosi sul proprio giaciglio. Teneva lo sguardo fisso sul soffitto di legno e fieno, senza avere veri pensieri nella testa, ma solo una tacita confusione, che gli impediva di prendere sonno. Dopo qualche minuto, fissò oltre la finestra aperta: in lontananza, la sagoma del Picco si stagliava nell’oscurità della notte. Sembrava quella di sempre: immota, dormiente, pacifica. Tuttavia Rohym non riusciva più a guardarlo con gli stessi occhi di prima. Nelle orecchie aveva ancora quel suono stridente, sgradevole; nella memoria riviveva quel movimento frenetico nell’aria, confuso, inquietante. Con un sospiro teso, si alzò per dirigersi alla parete dove teneva riposti gli attrezzi e le armi della caccia, e si appropriò del lungo e affilato machete che il padre gli aveva regalato quando aveva raggiunto l’età adatta per andare a cacciare. Tornò al giaciglio, e lo pose appena sotto il cuscino, per trovarlo a portata di mano. Prima di chiudere gli occhi, nel tentativo di addormentarsi, gettò un ultimo sguardo all’esterno, dove le tenebre stavano prendendo il dominio delle terre. Quel silenzio gli metteva addosso una strana sensazione. Una strana quiete. La quiete prima della tempesta, pensò con un brivido, e cercò di scacciare il pensiero, raggomitolandosi sul giaciglio. Ci volle ancora qualche minuto perché il sonno lo avvincesse, e per tutto questo tempo, non smise di stringere l’elsa del machete che sporgeva dal cuscino. Nel cielo buio, qualcosa si muoveva. Piccoli banchi di nuvole traversavano velocemente la valle, spezzandosi qua e là laddove le vette arrivavano a toccarle. Qualcuna di loro venne tagliata in due, come affettata da una gigantesca mannaia. Un’altra, e un’altra ancora. Qualcosa sfrecciava nel cielo, molto più velocemente di loro, e sebbene da terra non sarebbe mai stato possibile udirlo, il sibilo che produceva mentre tagliava l’aria fredda d’alta quota non cessava di riempire il silenzio. Un’ombra. Due. Tre. Una moltitudine. Svolazzò sopra il Gharra, come uno stormo di avvoltoi che si aggiravano su un animale che stava per esalare l’ultimo respiro. Come in attesa di una preda. Solo quando la luna cominciò a levarsi nel cielo, le creature sparirono velocemente dirigendosi oltre le catene montuose che delimitavano il confine sud della valle, perdendosi nell’oscurità del mondo esterno.
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