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 Le Cronache dello Zabaione: Alla Ricerca di Shar! Successivo
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Emma Norton
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MessaggioInviato: Gio Mar 25, 2010 12:32 am Rispondi citandoTorna in cima

° ° ° LE CRONACHE DELLO ZABAIONE: ALLA RICERCA DI SHAR! ° ° °

“Al mio caro Gerald, morto nel tentativo di rubare le uova ad una cockatrice.
Tesoro, questo zabaione è un tributo alla tua bontà.
Che la sua dolcezza possa ricordarmi il buon sapore delle tue labbra
e la vellutata consistenza i tuoi abbracci pieni d’amore.”



° ° Preludio ° °

“Venisti da me, la prima volta, per sciogliere una maledizione”
“Sì, Oracolo. Mi serviva il tuo aiuto per trovare i frammenti dell’anima di Wennight, per sconfiggere Dester”
“E ci sei riuscita?”
“Sì, lo stregone è morto”
“Allora perché sei tornata?”
“Sono caduta in un vortice che ha sciolto il mio legame con i frammenti..”
“Quindi mi stai chiedendo un modo per poterli riunire nuovamente? ..Non posso esserti d’aiuto, stavolta. Dovrai imparare a controllare le tue mozioni per evitare che prevalgano quando meno te lo aspetti”
“Non sarà facile!”
“Sarà più semplice se imparerai ad accettarle, come loro hanno fatto con te per tutto questo tempo…”
“Allora non ho altra scelta…”
“Chi è quella che ti da più problemi?”
“Königin Von Dornbusch”


Pochi giorni dopo il suo ritorno a Derselan, la giovane ricevette questa curiosa lettera da un uomo che si firmava K e diceva di conoscerla.
Così convinta, ed anche molto disperata, scrisse questa missiva di risposta in cerca di tutto l’aiuto possibile:

Caro K,
Se gentile è l'animo e nobili le vostre intenzioni, allora vi prego d'aiutarmi; se tanto vi ricordo un'altra donna allora immaginate che, aiutandomi, in qualche modo possiate ricambiare l'affetto e la cortesia che questa dama v’offrì in tempi or lontani.
Per disgrazie e sfortune intrecciate come vimini nelle mani di una vecchia, sono rimasta sola; vedova prima e, in seconde nozze, moglie abbandonata.
Se ciò non è già abbastanza per i vostri occhi vi scrivo di mio figlio, che il destino m'ha sottratto quand'ancora faticava a parlare. Se non mi sono arresa è stato grazie all'amore materno, che mi ha spinta a tornare in cerca del mio piccolo. Dunque, con i sospiri che alternano le mie parole, vi chiedo se avete notizie di un bambino di 10 anni, dai capelli biondi come l'oro e gli occhi grigi come l’argento. Il patrigno che me lo scaricò, prima di sparire, lo chiamava Shar.
Se riuscirete a trovarlo vi sarò eternamente grata.

Vostra, K. Von Dornbusch

_________________
***
Ora posso anche morire, ho avuto tutto quello che volevo.
Anzi, rimango ancora un po' a burlarmi di voi.


***

Ultima modifica di Emma Norton il Ven Set 17, 2010 1:58 pm, modificato 6 volte in totale
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Emma Norton
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MessaggioInviato: Ven Set 17, 2010 1:27 pm Rispondi citandoTorna in cima

° ° ° LE CRONACHE DELLO ZABAIONE: ALLA RICERCA DI SHAR ° ° °


Personaggi:
-> Königin Von Dornbusch (Oni) e Schattenschwarz Tagliagole spietata ed il suo fedele compagno, una timorosa volpe bianca.
-> Conte Nether di Middenheim Paladino, Membro anziano dei Claw
-> Arloc Vampiro, Leader delle Orde di Ramius
-> Vroengald Drow
-> Wulfric Straniero arrivato dalle terre del nord
-> Perrin Fabbro Cittadino di Romar
-> Sir K Von Unnamn Umano di origini sconosciute


EPISODIO I
“Emma Norton è sparita da qualche tempo e nessuno ha più avuto sue notizie.”

~ La Metamorfosi [ATTO PRIMO] ~

Königin Von Dornbusch cadde a terra. Si rialzò, lentamente, raccogliendo nella mancina ciò che restava del suo sontuoso abito, ora ridotto a stracci penduli dalla vita in giù. Scoprì per un istante la caviglia, lercia di terriccio e fili d'erba: doveva aver perduto una scarpa poche ore prima. Alzò il mento verso il cielo stellato; sapeva che Vordus la stava osservando, meditabonda, implorando ai suoi occhi una risposta per questa improvvisa apparizione, ma le iridi scarlatte furon ben lungi dal soddisfare la curiosità senza fondo di quella luna guardona. Serrando le labbra continuò la sua marcia. Se solo la sua asina non fosse morta proprio a metà del viaggio, sicuramente non avrebbe tardato di così tante notti il suo ritorno...
Zoppicante si trascinò nella neve fresca. Doveva trovare al più presto un riparo o la gamba senza calzare sarebbe congelata. Al limitare della foresta, tra i campi dei contadini e le mura cittadine, intravide i resti malandati di una carrozza, priva di ruote e di destrieri. Bloccate le finestre, da travi e chiodi arrugginiti. Era un ottimo riparo, pensava, e l'istinto di sopravvivenza non la fece retrocedere dalla tentazione di profanare quella carcassa di legno. Si fermò solo all'ultimo passo che la separava dallo sportello. Avvertiva del calore, il calore di una persona che dormiva il sonno di un bambino.. La mano violacea, più gelida della lama brandita, girò la maniglia ed al passo successivo Königin era già dentro; tappata prima la bocca, per soffocare inutili gemiti mentre la vittima veniva sgozzata, diede un taglio netto. Buttò il cadavere fuori dalla carrozza, sicura che a breve dei lupi sarebbero accorsi a far sparire ogni traccia. Era una donna.
Lavò via dal pavimento la macchia più grossa di sangue e si richiude dentro avvolgendosi nel giaciglio ancora intriso dell'odore di un'altra persona. Chiunque fosse non avrebbe fatto più ritorno ed era la cosa più importante in quel momento. Chiuse gli occhi pensando alle sue prossime mosse.

La ragazza uscì dal suo nuovo rifugio la sera seguente. Come previsto non c'era più traccia del precedente proprietario ma, ad attenderla, un grosso batuffolo bianco, accovacciato davanti l'anta della carrozza.
Pugni ai fianchi, lo sollevò da terra raccogliendolo come un gattino e lo fissò dritto negli occhietti neri: «Schattenschwarz, mio fedele marito, mio adorato fratello, mio insostituibile compagno... Guarda come ci siamo ridotti!» Sbuffò la giovane. Appena la lasciò andare, la volpe sgusciò all’interno della carrozza lasciandola chiusa fuori. A quel punto decise di fare una passeggiata in città, sperando di trovare chi stava cercando.
Prima di varcare i cancelli, s'avvolse bene nel mantello per non farsi riconoscere, sempre ammesso che qualcuno avesse potuto riconoscerla. Sgattaiolò per le vie verso i quartieri residenziali: era una lunga camminata per raggiungere la collina più alta, ma risoluta proseguì fino all'ingresso di una torre. Si coprì ulteriormente il viso lasciando scoperti solo gli occhi e bussò due volte, in attesa che qualcuno le venisse incontro. Ogni tanto saltellava per via del freddo polare.
Il conte Nether aprì le palpebre di scatto nell'avvertire i tonfi contro la massiccia porta di legno. Il respiro era rapido e affannato, quanto i battiti del cuore che risuonavano nel petto. Seduto sulla poltrona del salotto, al secondo piano, osservava le braci del camino che lentamente si spegnevano fino a diventare grigie come le pareti di pietra della stanza. Ancora il tonfo sui battenti. Digrignando, si tirò in piedi allontanandosi verso la finestra che dalla cucina si affacciava sul cortile. Non riuscì bene a scorgere la figura, ma ad ogni modo non gli sembrava si trattasse di un volto noto. Salì rapidamente in camera, rischiando di inciampare un paio di volte, per poi prendere la propria spada e scendere le scale. Gli ultimi stranieri che gli avevano fatto visita o erano emissari di qualche pazzo psicotico o peggio. Tanto valeva essere preparati.
Arrivato alla porta portò la mano all'elsa: «Chi c'è?» Chiese da dietro di essa.
La ragazza si schiarì bene la gola. Più per camuffare la sua vera voce, che per meglio parlare: «Messere.. Milord..» Gracchiò, «..Permettetemi di entrare e di presentarmi. Fa piuttosto freddo qua fuori, sapete? Non lasciate che una povera donna infreddolita rimanga sull'uscio della vostra lussuosa casa!»
L’uomo soffiò col naso con fare seccato. Girò i chiavistelli alcune volte aprendo uno dei battenti così da trovarsi di fronte alla donna; la mano sinistra era sempre appoggiata sul pomolo della spada: «Entrate pure..» Disse cercando di non mostrare uno sguardo troppo severo.
Senza farselo ripetere, Königin entrò spedita in casa per preservare quel po' di calore che l'era rimasto in corpo. Subito dopo si accorse che era stata una mossa azzardata. Arricciò il naso, iniziando a sentirsi male. Una zaffata di feccia Claw la investì come uno scroscio d'acqua e subito le vennero i conati di vomito alla bocca. Faticò a trattenersi ma resistette: voleva tenere su la maschera ancora per qualche minuto.
Nether richiuse la porta. Per un attimo sorrise al pensiero di avere una sorta di preda chiusa all'interno del suo piccolo castello, ma era un pensiero fugace che passò rapidamente: «Perché mi stavate cercando?» Chiese senza giri di parole. Mancava di buone maniere, ma non era dell'umore adatto a seguire un qualsiasi tipo di protocollo diplomatico.
«Mi chiamo Androstella Fiordipesco, secondogenita del siniscalco più ricco ed acclamato delle mie terre. La mia sorellastra, l'erede, è morta a causa di una terribile pestilenza e mio padre mi ha mandata in terre lontane in cerca di uno sposo… Ho origliato dalle contadine giù nel fondovalle che siete da poco diventato vedovo e mi chiedevo se foste interessato a risposarvi in cambio di una cospicua dote...» Ed a quel punto strinse i denti per evitare di farsi sfuggire una risata. Rovistò nella tasca della giacca mostrando all'uomo un monile in argento, la cui forma era del tutto simile ad un cuore: «Questo è un anticipo.. Consideratelo un pegno d'amore.» Si morse la lingua e aspettò la sua reazione.
Il conte non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire una breve risata: «Scusi, mancanza di tatto mia...» Si giustificò portando il dorso della mano alla bocca e chinando la testa per dissimulare il ghigno che si era appena formato sul volto «Ad ogni modo, non sono “minimamente” interessato a ri-sposarmi, né tantomeno per tutto l'oro di questo mo...» Si bloccò di colpo. Aveva riconosciuto il ciondolo, ma non poteva crederci. Doveva essere un'imitazione. Dopo qualche secondo si rese conto che lo stava fissando: «Dove lo avete preso?» Chiese, con tono di voce grave.
«L'ho forgiato io stessa, molto tempo fa» Cominciò col dire, sfilandosi il cappuccio e riprendendo a parlare normalmente: «Lo persi in combattimento, cadde in un fiume e venne ripescato dal mio compagno..» Srotolò la sciarpa dal viso, scoprendolo; «Dopo che venne assassinato, incontrai un uomo che divenne il mio maestro e gli chiesi di custodirlo..» Slacciò il mantello e, ripiegandolo sul braccio, mostrò le sue fattezze: «Il resto è storia, ve lo posso garantire.» Allargò un sorriso che sfiorì non appena avvertì dei rumori dal piano di sopra. Poggiò una mano sul braccio dell'amico ritrovato, stringendolo forte per fargli sentire che ciò che stava vedendo era reale.
«Avrei tante cose da dirti, da raccontarti.. Ti ringrazio per tutto quello che hai fatto per me e sappi che se ora sono davvero felice lo devo solamente a te...» A passo svelto si diresse verso la porta: «Volevo solo darti l'addio che non ho potuto tanti anni fa...» Distolse lo sguardo dal paladino e scappò via.

Königin Von Dornbusch uscì per la sua solita passeggiata notturna. Passò davanti una casa dove sentì i pianti disperati di qualcuno. La porta era aperta e c’era gente davanti ad essa, seduta che pregava oppure si scambiano sussurri di conforto stringendosi a qualche vicino. Entrò dentro e, scambiata per un parente in procinto di dare un ultimo saluto, passò del tutto inosservata mentre s’accostò al letto di morte, avvedendosi della vecchia che, sofferente, stringeva con le mani ingiallite ed artigliate uno spaurito giovinastro, che per lo stesso naso aquilino e la forma degli occhi doveva inequivocabilmente trattarsi del nipote. I figli della vecchia erano tutti lì, più seri degli altri, forse avvolti da leggeri asti e rancori che sopivano fintantoché erano costretti a restare in quella stanza che puzzava di morte. La vecchia rantolava, chiedeva acqua. Una donna accorreva a servirla. Sembrava che non ci fosse nient’altro da fare eppure Königin restava lì, seduta, in attesa, forse desiderosa di vederla respirare per l’ultima volta.
Fu allora che, forse il maggiore dei figli, le domandò il nome. La ragazzina si destò dai suoi pensieri perversi e, resi visibili solo i profondi occhi scuri, disse ai presenti: «Ho desiderio di comprare i capelli di questa vecchia moribonda.» E quella richiesta lasciò tutti in silenzio.
«Voglio comprare i capelli di questa donna.» Ripeté, «Mille monete d’oro. Potete dividervele.. O usarle per una degna sepoltura.» Un briciolo di senno rapì la mente del pover’uomo: «Ma voi..» Avrebbe potuto cacciarla di casa, ma qualcosa lo trattenne… I suoi occhi, forse, ed il loro potere persuasivo.
«Io non scherzo. Ho chiesto i suoi capelli. Non ne avrà bisogno nel luogo in cui sta andando.» L'uomo non riuscì a togliere lo sguardo dal giovane viso di Königin ed infine quei diabolici occhi lo convinsero. Presero la vecchia che dapprima sgranò gli occhi, riempiendo i polmoni d’aria marcia prima di soffocare un gemito in gola; il più grande prese una lametta da barbiere ed il minore spalmò della schiuma sulla fronte sudaticcia della morente. Le rasero la testa.
Quando il grido della più addolorata avvertì che l’anima si era lasciata andare e gli altri si unirono ai pianti di rito, l’uomo che stava per ereditare la casa consegnò alla ragazza, raccolti in uno straccio, i lunghi e finissimi capelli bianchi. Come da pattuito,la giovane gli passò il sacco col denaro. Poi si allontanò, lasciando che le false lacrime di dolore impregnassero le pareti di quella abitazione.
Giorni dopo la videro camminare con eleganza nei pressi di Romar, mani intrecciate sul grembo e sguardo chino. Si fermò un istante solo ad osservare il suo aspetto nel riflesso d'una vetrina, giudicando di suo gradimento la nuova parrucca sapientemente cucita da Deimos. Lunghi, finissimi capelli argentati le coprivano la schiena. Sorpassò il negozio avvedendosi delle facce nuove in città. Dopo un cenno sommesso del capo, rivolto ai viandanti, s'avviò verso la fucina.
Tira sù col naso per giudicare la qualità del fumo della pipa del fabbro e poi tossì sommessamente. Più per annunciare la sua presenza, che per altro. Appena credette d'aver rubato abbastanza attenzione, inumidì le labbra, secche per via della stagione, ciarlando: «Presumo che voi siate il fabbro cittadino» Incalzò, e senza aspettare una conferma aggiunse: «Avrei bisogno d'affidarvi una commissione. La mia carrozza è stata derubata delle sue ruote e se vi procurassi il materiale avrei bisogno d'aiuto per assemblarle e riparare il mio mezzo. Naturalmente, sarei generosa come il sole d'estate per il viaggiatore infreddolito e vi pagherei il disturbo.» Gli occhietti scuri caddero per un attimo sulla birra dell’uomo, poi sbatté le palpebre ed attese una risposta.
Sir K Von Unnamn era fermo nel mezzo della piazza che, nel grattarsi la testa con un dito, si domandava cosa fosse un calico gatto. Lasciando l'enigma irrisolto ai posteri, s'avvide tuttavia della presenza d'una fucina. “Qui sapranno bene la differenza tra una paletta ed una spada” Pensò tra sé. Così avanzò sull'uscio, un inchino per salutare il manichino imparruccato, ed un gran sorriso per ingraziarsi l'orso addetto ai ferri: «Buonsalve signori miei, perdonate l'intrusione. Mi domandavo se in questa fucina si fabbricano armi che non rassomiglino attrezzi da giardiniere.» E nel parlare mostrò, non senza imbarazzo, il pezzo di latta che gli avevano rifilato a Wen.
Perrin, il fabbro, osservò un momento i due stranieri, quindi inizialmente risponde alla donna: «Salve milady. Si, sono il fabbro cittadino e per il lavoro non c'è problema, ditemi dove posso trovare la carrozza e provvederò il prima possibile» Rivolse quindi l'attenzione all'uomo: «Voi che dite? Ma certo che fabbrico anche armi, e per ogni esigenza oserei dire! Se avete in mente qualcosa di preciso ditemi pure, altrimenti date un'occhiata a quelle rastrelliere» Dice additando un angolo della fucina, «Potete trovare qualcosa di già pronto che magari può fare al caso vostro.»
Dai quartieri residenziali uno stallone nero galoppava senza sosta lungo la stradina che collegava il quartiere residenziale alla città. La donna che lo cavalcava non sembrava intenzionata a rallentare la marcia: «Vai! Vai, Amroth, vai, vai!» Le sue urla non trasmettevano spensieratezza, purtroppo, quanto un'intensa inquietudine. Il cavallo sentì la sua voce e sbruffò come se avesse pensato che dalla sua velocità fosse dipesa la vita o la morte. Aumentò, se possibile, ancor di più l'andatura sfrecciando attraverso la piazza di Romar incurante delle persone che si tuffavano per evitare di essere investite; infine imboccò la strada che portava alla via principale e che si perdeva nella foresta. Per l’uomo che le stava dietro, seguire lo stallone nero in corsa si rivelò più facile del previsto: la poca distanza gli permise di passare senza problemi nel varco aperto dall’animale in testa. Anche quest'altro cavaliere sfrecciò sulla spiazza diretto ai cancelli che davano sulla foresta. Sperava di raggiungere la donna prima che s’inoltrasse nei boschi o, ne era certo, avrebbe perduto le sue tracce.
Così, al folle galoppo, spronando furiosamente il destriero arrivò un terzo cavaliere. Sentì le grida e le minacce rivolte a lui e ai suoi compagni passati prima, ma senza badarvi continuò ad urlare nelle orecchie del suo cavallo e, questi, forzò al massimo l'andatura mentre gli zoccoli volarono sulla strada diretta alla foresta: «Più veloce, maledetto Daikon più veloce!»
Königin fece un passetto indietro, girando di tre quarti il busto per osservare meglio il viandante in cerca di un’arma. Notò poi i tre che fuggivano verso la foresta e, al cavaliere in capo alla corsa, dedicò tre secondi buoni di silenzio. Rivolta nuovamente al fabbro concluse sbrigativa: «La mia carrozza si trova nei campi di Romar. Non c'è alcuna fretta, del resto devo ancora ruba.. ehm.. Devo procurarmi delle nuove ruote di legno.» Raggruppò le sottane tra le mani e scappò via.
Perrin la osservò correre via a gambe levate e grattandosi la testa, perplesso, si rivolse allo sconosciuto: «Bene, a quanto pare ora posso dedicarvi tutta la mia attenzione..» Ma quando lo straniero iniziò a girare a vuoto per la fucina, facendogli perdere un sacco di tempo prezioso, il fabbro iniziò a spazientirsi: afferrò con una delle sue grosse mani il viandante per la collottola, con l'altra lo afferrò per la cintura, indi lo scaraventò fuori dalla fucina dicendo rabbioso: «Se avete intenzione di farmi perdere tempo avete sbagliato persona! Ho del lavoro da sbrigare e non posso star qui ad aspettare i vostri comodi! Se proprio dovete, tornate quando avrete le idee chiare!» Girando le spalle si pulì le mani, tornando al lavoro da dove l'aveva lasciato.
K si tolse la polvere di dosso con un gesto di stizzito stupore: «Tornerò, non temete!» E nell'allontanarsi regalò al fabbro un sorriso che, in altri tempi, avrebbe lasciato presagire eventi funesti. Per gobba fortuna del fabbro, i tempi eran davvero cambiati.
Perrin controllò con cura gli stampi e vide che le barre erano raffreddate a sufficienza. Le prese con delle pinze e le divise in sei gruppi da tre, prese il primo gruppo e lo mise nella fornace per riscaldarlo e poi lo posizionò sull'incudine, iniziando a martellare per saldare insieme le tre barre; procedette così fino ad ottenere un'unica barra uniforme e ripeté la stessa operazione con tutti gruppi di barre.
Ottenute sei barre più grandi, le unì nuovamente in due gruppi da tre, ma questa volta dopo averli scaldati iniziò a torcerli tra di loro e completata questa operazione li posò sull'incudine iniziando a martellare per fargli, finalmente, prendere la forma desiderata: ogni tanto immergeva le barre nella forgia per mantenerle alla giusta incandescenza e dopo alcune ore erano ultimate le lame, che mise prontamente ad arroventare per temprarle. Nel passaggio finale aggiunse alla fonte del barile la boccetta d'acqua consacrata di Tanat ed estrasse la prima lama immergendola in esso, seguita a breve dalla seconda; ripeté quest'operazione per altre due volte al fine di renderle più resistenti ed infine le pose sul banco da lavoro, dove innestò le impugnature. Si dedicò all'affilatura, le ripulì a dovere e le coprì con un telo. Soddisfatto del proprio lavoro, Perrin decise di concedersi una pausa, ma prima scrisse una missiva per Lao, per informarlo che le armi sono pronte.
Si versò nuovamente una birra e caricando a dovere la pipa risedette sulla panca appena fuori della fucina, guardando la piazza.


~ Il Passato, Il Sogno e Lo Straniero ~

Wulfric si fece largo in quella marmaglia generica di strimpellatori, avventori e forestieri, elfi e nani, che affollava la ben conosciuta Mano di Ferro. Era una figura desueta, considerato l'ambiente che lo circondava, e, mentre lasciava libero il passaggio agli habitué della locanda, si tirava dietro occhiatacce strane e mormorii in una lingua che non comprendeva.
Agli occhi altrui appariva come un nerboruto uomo, ben piantato, che non dimostrava più di trent'anni.
Dal collo gli penzolavano monili e chincaglierie più o meno preziose, vestiva pantaloni di cuoio, conciato e bollito, calzari in pelliccia d'orso - mezzi sfondati, era pur sempre reduce da un lungo viaggio nella tundra ed era chiaro che, dalle steppe da cui proveniva, aveva veduto giorni migliori - e sulle spalle portava una pelliccia di lupo, le cui fauci si aprivano sulla sommità del capo. I capelli, sciolti, ricadevano ai lati del viso del Figlio di Njord, legati in treccine più o meno larghe a decorazione di un bercio tagliente e perennemente incazzato; taciturno, non si faceva coinvolgere dall'atmosfera goliardica e tirava dritto verso il bancone, laddove Cedrik serviva i clienti. A giudicare dalle bende che gli coprivano un fianco, sembrava ferito, ma la macchia di sangue rappreso sui bendaggi e sulla carne non gli impedì di muovere le chiappe per cercare un posto dove rifocillarsi e passare la notte. Non si prese nemmeno la briga di liberarsi del manto che gli copriva il capo, le spalle (larghe e segnate da circoli di rune, simboli e tatuaggi tipici della sua gente) e la schiena; a parte quel pelo fitto, lucente, della belva ormai morta e scuoiata che si portava addosso, il petto era nudo e, a ben vedere, si notava un segno inciso all'altezza del cuore, ma non se ne distinguevano le forme. A guardarlo così, pareva straniero in tutto e per tutto.
Il grugno incazzato, gli abiti desueti, niente guanti e l'assenza di armi ai fianchi lo rendevano una sagoma di spicco; forse, per colpa dei lineamenti del viso, segnato dai gelidi sussurri di Polareia, magari l'aria di morte che si portava dietro o, ancora, il puzzo di animali e sangue che gli impregnava la pelle ricolma di tatuaggi e cicatrici. Stava di fatto che, non curandosi dei bisbigli d'un gruppetto elfico alle proprie spalle, fece la sua ordinazione una volta accomodatosi al bancone: «Oste: Bjorr!» Non il nettare degli Dèi, ma quello riserbato ai popolani e ai guerrieri egli chiese, appoggiandosi coi gomiti sul bancone; lo sguardo dell'oste gli parve basito, ed ecco che si premurò di tradurre quanto appena chiesto in lingua natìa: «Una birra, hm..».
Königin era appena giunta davanti la locanda e delicatamente adagiò una mano sull'anta della porta. Sospinse piano, per evitare di infastidire le sue orecchie con il cigolio dei cardini che, sicura, sapeva non essere oliati a dovere. Fece un passetto e sbirciò all'interno, assicurandosi che nessun cliente della Mano di Ferro fosse sgradito ai suoi occhi. Sicché parve non esservi persone, al suo interno, in grado di riconoscerla, s'addentrò, sempre con passo misurato, a suon di tacchi a spillo.
Quella sera la regina indossava aderenti e morbidi pantaloni a vita alta, segregando una camicia di seta ambrata in un rigido corpetto di cuoio che risaltava le sue forme. I capelli, lunghi fin sotto la schiena, erano raccolti in un'elaborata treccia raggomitolata all'altezza della nuca, mentre il viso era coperto da una sottile retina di pizzo nero, che scendeva dal cappello corvino adorno di finti gigli.
Conosceva la via. Sedette, con fare quasi prepotente, di fianco allo straniero dall'accento nordico, chinando il capo sul bancone. Gingillò su una goccia di grog rimasta sul legno ed allungando l'indice la succhiò via. Appena dopo aver saggiato la qualità dell'alcolico annacquato e l'oste le degnò di un’occhiata mentre era intento ad asciugare un boccale, ordinò: «Un bicchiere di rum» Ed alzò il capo per osservare le fattezze del vicino di sedia.
Quando Cedrik servì a Wulfric il grosso boccale di birra, ordinato in precedenza, il Figlio di Njord sollevò la mano destra per scostare la pelle di lupo dalla sommità del suo capo e lasciò ricaderne le fauci all'indietro. Dopo aver ingollato parte della bevanda, ruotò il muso in favore di Konigin; a questo punto, chiunque altro avrebbe iniziato una conversazione - forte del potere disinibitorio dell'alcool - , ma non fu questo il caso del nostro.
Con le dita strette attorno a quel boccale si limitò ad osservare silenziosamente la nuova arrivata.
Königin, la velenosa, sempre che quello fosse il suo vero nome, iniziò a grattar via del truciolato da un solco sul tavolo. Fece una pausa quando le venne servito il rum, che bevve in tre piccoli sorsi stampando sul vetro una copia esatta delle sue splendide labbra. Svuotato il bicchiere continuò il suo giochetto. Non aveva mai smesso di guardare l'uomo che le stava accanto. Si poteva quasi dire che, quel rumore pressappoco impercettibile nel chiasso della locanda, fosse frutto dell'imbarazzo e del disagio nell'aver gli occhi puntati addosso, ma chi conosceva, aveva sentito parlare o provato la sua frusta, sapeva per certo che le sue unghie producevano quel suono irritante per pura provocazione. C’era da ammettere che, a ben giudicare, Königin non aveva mai visto nulla di simile nella sua vita. Ne aveva conosciute di persone, buone e cattive, vive e morte, ma mai niente che somigliasse nei costumi e nel portamento allo straniero. La sua analisi proseguì andando oltre; rapida, mosse le palpebre soffermandosi sulla muscolatura, sull'altezza, valutò se potesse aver con sé delle armi ed infine pensò alla misura dei suoi calzari. Tornò sul viso. S'interruppe solo quando, con le unghie, tirò via una scheggia di legno che si conficcò nel dito. Un aghetto infilzava il medio e con la sinistra lo lanciò per terra. Appena una goccia di sangue iniziò a fluire nascose la mano, dedicando un'ultima, veloce, occhiata all'uomo e scese dal seggio con un piccolo saltello, facendo sobbalzare il seno.
Lasciò qualche moneta sul tavolo disperdendosi tra la folla per uscire dalla locanda.
Wulfric, invece, si scolò senza indugio alcuno il contenuto del boccale; il pagamento per Cedrik arrivò a tempo debito: l'uomo non mancò di consegnare all'oste le monete per la consumazione appena avvenuta. In tutto quel ticchettare di unghie, saltellare di seni e sobbalzare dalla sedia.. Beh, lui non aveva fatto una piega. Come se, a fissare la donna, lì di fianco fosse stato un pezzo di granito, privo di emozioni e traboccante atarassia da ogni poro. Silenzioso, riagguantò la pelliccia di lupo calandosela sul capo.
Fece per alzarsi e s'allontanò dalla bettola; uscendo all'esterno si diresse altrove.

Seguirono molte lune che, in preda ad un attacco di nostalgia, la nostra Königin si diresse a Polareia.
Avvolta nel mantello girava in cerchio come una fiera in gabbia e sbuffando volute d’aria dalle narici. Stava davanti al porto occidentale della città dei ghiacci, ormai in disuso, in attesa di qualcuno pur sapendo che non sarebbe mai giunto. Credeva di poter alzare lo sguardo e di trovarselo davanti, col suo bel sorriso beffardo, con i suoi occhi, glaciali e magnetici, che guardandola, come solo lui sapeva fare, le avrebbe chiesto: «..Contenta di rivedermi?»
Era il suo dolce modo di autosuggestionarsi per qualcosa che non sarebbe mai accaduto, ma imperterrita continuava a girare al molo deserto ed aspettava… Il piede destro mosso dalla speranza, il sinistro dalla rabbia. Speranza, rabbia. Sospirò, trattenendo in mente un caro ricordo prima che il gelido vento se lo portasse via… Tornò a camminare. Non smise fino al tramonto, quando ormai il piede destro pareva più stanco dell’altro. Si allontana un po’ delusa, un po’ zoppicante. Rabbia. Rabbia…
Tornata verso il centro trovò rannicchiato sotto ad un carro un viso a lei noto: «Puoi smetterla di nasconderti adesso..» Poiché non l'ascoltava, la ragazza si chinò a raccogliere Schattenschwarz, la volpe dal pelo candido, ed acciambellandosela in grembo riprese il suo cammino, stavolta diretta a Sehomar.

Königin giunse nella città maledetta solo una volta calato il sole. L’unica cosa che la separava dalla completa desolazione era la presenza di un fanatico drow di nome Vroengald, al quale riservò subito un’occhiataccia prima di portarsi ai cancelli del Tempio Oscuro.
Con poca gentilezza bussò di prepotenza alle inferriate, gridando a perdifiato: «Arloc! Dannato Arloc uscite da quella casa!» Poi, con fare reverenziale, s'avvide del Tempio della Fede, la dimora accanto, ed abbassò il tono della voce: «Debbo parlavi..»
Nella silente oscurità, il drow udì una voce sconosciuta. Col favore delle tenebre e dei nascondigli tra i ruderi, s'avvicinò al punto da cui proveniva tale voce e, con suo stupore, s’accorse che apparteneva ad una giovane umana: «Da quando dei miseri umani osano calpestar codesta terra senza il mio permesso?» Chiese autoritario.
Königin frenò la mano chiusa a pugno, intenta a menare il portone. Lasciò stare il vecchio pazzo di Arloc, che magari non era neanche in casa, e si concentrò sul nuovo venuto che pareva sciolto di lingua: «Da quando, mio sire, i porci parlano.. E a ben guardare ne ho proprio uno davanti!» Sorridendo maliziosa, afferrò due strati di gonna snudando la caviglia per un profondo inchino; scrutò nell'ombra, cercando di intravedere il suo interlocutore: «Se non oso troppo, potrei sapere chi v'ha fatto uscire con questa faccia lercia di catrame? O siete proprio così di natura?» E poi, parlando tra sé, aggiunse un commento più per le sue orecchie che per quelle del drow, troppo distante per udirla: «E pensare che mia madre diceva sempre che i parti anali erano i più rari in natura…»
Improvvisamente, alle sue spalle, in cigolii spacca timpani s’aprì il portone. Non più oliati, i neri cardini avevano ceduto alle angherie del tempo tiranno. Così, come una tomba il cui sigillo era stato rotto, il Tempio Oscuro s'aprì all'aria di Sehomar, sua suddita.

Entrate

Sentenziò una voce dalla fioca raucedine. A Sehomar riecheggiò infine il verbo del suo Re.

Königin sobbalzò all’indietro.
Non che si fosse spaventata, ma non s'aspettava proprio una risposta così rapida.
Il brivido lungo la schiena al sol sentire quella voce aveva fatto il resto, spegnendole il sorriso.
Si voltò verso il drow, un po' rassegnata: «Con permesso.. Continueremo la conversazione un altro giorno.» Rinnovò l'inchino, stavolta solo col capo, ed entrò in quello che pareva, almeno alla sua vista, uno splendido giardino di rovi.
Vroengald restò impassibile davanti agli insulti dell'umana. La mano si posò sull'elsa della spada, pronta a colpirla, ma in quel preciso istante dal Tempio Oscuro riecheggiò la voce di Arloc, che il drow credeva scomparso. L’elfo scuro fece una smorfia di disgusto rivolta a Königin e scompare nel buio di Sehomar mormorando: «Sarete presto carne per gli avvoltoi!»

Su un alto e nero dirupo sorgeva il Tempio Oscuro dimora di Arloc,
Re e Signore Supremo della città di Sehomar.
Il Tempio era un edificio a pianta circolare, circolare come il ciclo della vita e della morte.
Due colonne grigie, con capitelli decorati a unicorni oscuri, sormontate da un'imponente architrave, formavano l’ingresso principale e su di esse capeggiava un’imponente scritta:
Necronos Ospite Oscuro, Ramius Ora et Semper.
A parte la Grande Biblioteca, ove Arloc custodiva gelosamente
i suoi volumi trattanti la Stregoneria Oscura, e la Sala Riunioni dove incontrarsi con i suoi amici fidati e gli ufficiali del clan delle Orde,
la maggior parte delle stanze erano adibite ai riti per l'invocazione dei demoni;
Ma alla fine del Corridoio dell'Oblio si trovava una stanza particolare,
la Porta Oscura, dove - a detta dei visitatori -
si trovava l'ingresso diretto al Mondo dei Morti,
voluto da Ramius in persona per un contatto più frequente con il suo mandante in terra.


L’inguaribile curiosa e furtiva Königin infilò la chiave nella toppa addentrandosi nel tempio una volta soprassate le colonne. Lesse sottovoce la scritta e di risposta sentenziò: «Necronos a te, Tempio Oscuro. Se in passato era Ramius il re di questa dimora, ora son le ortiche e i rovi le tue nuove regine.» Esplorò più a fondo la casa, continuando a parlar da sola: «E quindi onora me, che sono delle spine tutte e delle piante velenose una regina».
Trovato un angolo che sembrasse appagare i suoi gusti, sollevò tre strati di polvere e sedette su un divanetto in velluto sbiadito e rifugio sicuro di termiti giganti. Scacciando un grosso ragno dallo schienale attese d'esser ricevuta dal vecchio bontempone di Arloc.

«Venite» Sentenziò il vampiro, incedendo lentamente verso Königin.
La giovane gli aveva indirizzato una missiva in precedenza, che aveva fatto leva sulla sua morbosa curiosità.
Ora, finalmente dinnanzi, poté scrutarla: «Mai vi vidi in queste lande, Donna..» Eppure, dai suoi modi, l’umana pareva conoscerlo. Il Gran Demone sapeva bene quanto la sua fama lo precedesse, tuttavia pensava che, col tempo, essa si fosse assopita insieme a lui nel suo lungo sonno.
«Non perderò altro tempo,» La callosa mano destra afferrò lo schienale di una sedia nera, indi il titanico braccio la sollevò senza mostrare il minimo sforzo. La sinistra cadde energeticamente sull’imbottitura rossa che, da cupa, si fece rubino in una nube di polvere. Dall'alto della sua possanza, il Gran Demone porse l'orpello d'arredo alla donna.
«Scusatemi per il disordine.» Sorrise sarcastico, «Sapete, ho dormito parecchio di questi tempi..» E poggiò la sedia innanzi all'ospite «Dunque, ditemi il vostro nome e tutto il resto.»
Königin s’avvicinò ma rimase in piedi contemplando a lungo, ed in silenzio, l’uomo che aveva di fronte e chiedendosi se fosse la stessa persona che aveva lasciato tempo addietro. Poi, il suo sguardo cambiò radicalmente senza nascondere una velata tristezza; abbassò il capo per pochi secondi, come a voler scacciare un ricordo indelebile, riprese a guardarlo e stavolta aprì bocca: «Omaggio al Gran Demone. Invero, non mi avete mai vista…» E scelse con cura le parole da usare, «Un tempo, ricorderete, incontraste una donna umana che corrispondeva al nome di milady Emma Norton, che tanto fedelmente vi servì appoggiando la vostra causa, la causa delle Orde di Ramius. Ella, con inganni e bugie, è riuscita per anni a nascondere il suo più grande segreto, quello di possedere una personalità multipla. Tra tutte, io sono quella più spietata e crudele e che ha preso finalmente il controllo dopo anni di ripudio e segregazione… Mio sire, io sono Königin Von Dornbusch, Oni se volete, per facilità di lingua e di memoria. E sono tornata per servirvi ancora…» Terminò le sue parole con un cortese inchino. Poi si guardò intorno in cerca di un calice, ma non trovandolo riprese a parlare: «Immagino che dopo tanto tempo abbiate “sete”..» Dalla manica interna della giacca estrasse uno stiletto e se lo punta sulla vena pulsante della destra: «Posso avere l’onore d’esser la prima a nutrirvi dopo tanto tempo?» Il taglio fu rapido ed indolore, ma mano a mano che il sangue sgorgava, riversandosi a terra, esso si spandeva come un velo vermiglio fino a coprire interamente la camera. Si ritrovò a nuotare in un mare di sangue mentre figure più o meno familiari le passarono davanti come una carrozza in corsa e perse conoscenza.
Si destò il mattino seguente in un letto di spine, nel giardino del Tempio Oscuro.

Wulfric era avvolto, come suo solito, nella pelliccia di lupo con le fauci spalancate sulla sommità del capoccione; come sempre, più svestito che coperto. Aveva ha la faccia imbrattata a sputi di terra e sangue animale: arabeschi e rune ne decoravano le guance, coperte da un filo di barba, così come le spalle e il ventre. Il petto villoso, ricoperto di tatuaggi e sfregi, non pareva temere il gelo che sferzava la cittadina, né il nevischio che, leggero, scese dal cielo e gli si depositò addosso. Gli stivali in cuoio e pelle di coniglio marrone affondarono nella neve, sotto il peso non eccessivamente esiguo del maschio; al collo si portava ossa, piume e perline. Monili vari.
L'andatura era lenta e lo sguardo sollevato al cielo.
Seduta sulla passerella del molo abbandonato c’era Königin, che guardava sognante la distesa infinita di ghiaccio. Chiudendo gli occhi riusciva quasi a sentire le urla degli uomini in mare che cercavano l'eco di ritorno per valutare la distanza dalla terra ferma. Si chiese se, su una di quelle barche immaginarie, ci fosse il suo uomo che tornava vittorioso dai lunghi viaggi e se portava con sé il suo bambino, di cui non aveva più notizie… Poi si destò, alzandosi in piedi e gettando un sasso in mare e corse via verso il centro cittadino.
Wulfric non fece caso alla donna fin quando quella non gli sfiorò un braccio e gli sfrecciò di fianco, nel correre diretta chissà dove: ma non parlò, voltandosi semplicemente in direzione di quella nell'esatto istante in cui le passò vicino.
Appena Königin sentì gli occhi dell'umano puntati su di lei si fermò di colpo. Era come una trappola, che la tratteneva in quella posa a metà tra il disperato bisogno di fuggire e la necessità di un conforto di qualsiasi natura. Si girò di tre quarti e lo fissò. Poi, presa da un'inspiegabile ragione, si liberò del mantello e mostrato il collo indicò le sue collane. Alzò il primo pendente a forma di punta di freccia, in ferro scuro: «La forza del cacciatore» Poi il secondo e disse «La Saggezza del monaco» Ed abbassata la piccola testuggine d'avorio chiese «I vostri monili hanno un significato o sono tutti trofei di battaglia?»
Il Figlio di Njord sollevò la mano per frugare con le dita in mezzo alle cinque, sei, forse sette collane che indossava: ognuna di lunghezza differente, ognuna con un significato o un voto: «Entrambe, Hvit..» La chiamò Bianca, nel linguaggio natio, non sapendo come altro appellarla. E mentre spiegava, snocciolò collana per collana con le dita, a seconda di quale gingillo gli cascasse tra le mani: «L'energia dell'orso, la scaltrezza dei lupi. La protezione di Wotan. Il dente e il femore del nemico. Il ricordo di casa.» In mezzo a piume e perline, quella roba parlava di gente che aveva visto, gente che era morta, di una cultura strana e antica tipica delle steppe e di tutte le credenze che si portava addosso. Perfino la voce dell'uomo era dura, tagliente.
«Sei una cacciatrice?» Le chiese.
«In questo momento sì.» Rispose ambigua, continuando il suo gioco. Evitò di parlare del terzo ciondolo, più grande e in argento, e scoprendo la spalla mostrò la cicatrice più lunga: «Questa è stata una lancia teutone» ed il braccio sinistro «E qui l'alabarda di una guardia.»
Wulfric abbassò gli occhi color nocciola sulla cicatrice della donna; allungò il collo per meglio scrutarla e, a distanza così ravvicinata, odorava di muschio, sangue e sudore. Era un maschio tipicamente nordico e non poteva essere altrimenti, questo era poco ma sicuro: «Le tue parole sono criptiche come i tuoi occhi» E non a caso fu informale, nel rivolgersi a lei. Era chiaro che dalle sue parti si usasse in poche occasioni dare del Voi. La scrutò, silenzioso, portando la mano al capo per liberarsi dalla pelle di lupo e scoprire meglio il viso.
La ragazza s'avvicinò a sua volta. Tirò su col naso perché in fondo adorava il muschio e perché voleva ricordarsi il suo odore. Scavalcò i resti di un pupazzo di neve e quando fu abbastanza vicina da farsi soffiare la frangia, bianchissima, dei capelli dal fiato del nordico gli sussurrò: «Ti ho mostrato parte di me, figlio dei lupi, ed in cambio vorrei che tu facessi altrettanto..» Gli occhi, solitamente grigiastri si tinsero di un profondo nero e per una inspiegabile ragione abbandonò anche quella parrucca che puzzava di morte terra bruciata; lentamente scivolò a terra mostrando capelli neri come inchiostro e dal forte odore di more.
A quel punto l’uomo sollevò le sopracciglia in un'espressione perplessa, probabilmente non aspettandosi la rivelazione di quelle chiome scure. In un primo momento sembrò sobbalzare sul posto, ma rimase piantato in quel suo metro di spazio, alto e col mento sollevato fieramente: statuario come potrebbe essere un paladino il giorno del suo primo trionfo, permase in quella posa con Königin vicina: «Perché,» Le dice, fissandola negli occhi e allungando un poco il volto per premere la fronte sporca di terra e sangue sulla sua, in un blando contatto animalesco: «Questo non ti basta?»
«Mi stupisce una domanda del genere da uno come te. Sono un predatore vorace e insaziabile, perché dovrei accontentarmi di quello che possono vedere tutti quanti?»
«Non sei un predatore.» Sorrise, «Non sei nemmeno vorace. Non sai di cosa parli.» Ma il suo non fu un tono di rimprovero; la voce era graffiante e carezzevole, una sorta di sarcastico sfottò come quello che si farebbe ad un bambino. Allungò le dita per prenderle la mano, annuendo comunque alle parole di lei; intenzionato a scoprirsi, ma per farlo, necessitava di una cosa: «Dammi la mano. Vieni, vieni in foresta con me.»
Königin rimase spiazzata e intimorita. Avrebbe potuto tener testa a qualsiasi confronto diretto, a qualsiasi combattimento, insulto, reazione insolita ma non al naturale gesto del prendersi per mano. Non sembrò in grado nemmeno di poter nascondere la sua paura e fu forse quella a darle coraggio e a cedere alla richiesta. Di certo, il suo accompagnatore non avrebbe una mano calda, né grande, né bianca. Era fredda, violacea, e dava tutta l'impressione di toccare un cadavere.
Wulfric s’aggiustò la pelle di lupo; al di sotto, il petto peloso sussultò ma non per emotività o timore. Era solo il naturale moto del braccio che si stendeva e delle dita che cercavano quelle di lei. La mano del maschio era grande, forte, la stretta decisa ma delicata: un uomo che sapeva come impugnare l'elsa di una spada e, nel farlo, c'era bisogno di delicatezza altrimenti non si era rilassati nel combattere. Ecco. Lui prese la mano di Königin come avrebbe fatto per impugnare una spada, con lo stesso piglio: sollevò un poco il braccio come per renderle l'onore di farsi accompagnare, galante a suo modo - un modo strano, straniero - e la condusse verso la fitta boscaglia ghiacciata poco distante. Sparendo con lei nelle tundre.

«Venite» Sentenziò il vampiro, incedendo lentamente verso Königin.
La giovane gli aveva indirizzato una missiva in precedenza, che aveva fatto leva sulla sua morbosa curiosità.
Ora, finalmente dinnanzi, poté scrutarla: «Mai vi vidi in queste lande, Donna..» Eppure, dai suoi modi, l’umana pareva conoscerlo. Il Gran Demone sapeva bene quanto la sua fama lo precedesse, tuttavia pensava che, col tempo, essa si fosse assopita insieme a lui nel suo lungo sonno.
«Non perderò altro tempo,» La callosa mano destra afferrò lo schienale di una sedia nera, indi il titanico braccio la sollevò senza mostrare il minimo sforzo. La sinistra cadde energeticamente sull’imbottitura rossa che, da cupa, si fece rubino in una nube di polvere. Dall'alto della sua possanza, il Gran Demone porse l'orpello d'arredo alla donna.
«Scusatemi per il disordine.» Sorrise sarcastico, «Sapete, ho dormito parecchio di questi tempi..» E poggiò la sedia innanzi all'ospite «Dunque, ditemi il vostro nome e tutto il resto.»
Königin s’avvicinò ma rimase in piedi contemplando a lungo, ed in silenzio, l’uomo che aveva di fronte e chiedendosi se fosse la stessa persona che aveva lasciato tempo addietro. Poi, il suo sguardo cambiò radicalmente senza nascondere una velata tristezza; abbassò il capo per pochi secondi, come a voler scacciare un ricordo indelebile, riprese a guardarlo e stavolta aprì bocca: «Omaggio al Gran Demone. Invero, non mi avete mai vista…» E scelse con cura le parole da usare, «Un tempo, ricorderete, incontraste una donna umana che corrispondeva al nome di milady Emma Norton, che tanto fedelmente vi servì appoggiando la vostra causa, la causa delle Orde di Ramius. Ella, con inganni e bugie, è riuscita per anni a nascondere il suo più grande segreto, quello di possedere una personalità multipla. Tra tutte, io sono quella più spietata e crudele e che ha preso finalmente il controllo dopo anni di ripudio e segregazione… Mio sire, io sono Königin Von Dornbusch, Oni se volete, per facilità di lingua e di memoria. E sono tornata per servirvi ancora…» Terminò le sue parole con un cortese inchino. Poi si guardò intorno in cerca di un calice, ma non trovandolo riprese a parlare: «Immagino che dopo tanto tempo abbiate “sete”..» Dalla manica interna della giacca estrasse uno stiletto e se lo punta sulla vena pulsante della destra: «Posso avere l’onore d’esser la prima a nutrirvi dopo tanto tempo?» Il taglio fu rapido ed indolore, ma mano a mano che il sangue sgorgava, riversandosi a terra, esso si spandeva come un velo vermiglio fino a coprire interamente la camera. Si ritrovò a nuotare in un mare di sangue mentre figure più o meno familiari le passarono davanti come una carrozza in corsa e perse conoscenza.
Si destò il mattino seguente in un letto di spine, nel giardino del Tempio Oscuro.

Wulfric era avvolto, come suo solito, nella pelliccia di lupo con le fauci spalancate sulla sommità del capoccione; come sempre, più svestito che coperto. Aveva ha la faccia imbrattata a sputi di terra e sangue animale: arabeschi e rune ne decoravano le guance, coperte da un filo di barba, così come le spalle e il ventre. Il petto villoso, ricoperto di tatuaggi e sfregi, non pareva temere il gelo che sferzava la cittadina, né il nevischio che, leggero, scese dal cielo e gli si depositò addosso. Gli stivali in cuoio e pelle di coniglio marrone affondarono nella neve, sotto il peso non eccessivamente esiguo del maschio; al collo si portava ossa, piume e perline. Monili vari.
L'andatura era lenta e lo sguardo sollevato al cielo.
Seduta sulla passerella del molo abbandonato c’era Königin, che guardava sognante la distesa infinita di ghiaccio. Chiudendo gli occhi riusciva quasi a sentire le urla degli uomini in mare che cercavano l'eco di ritorno per valutare la distanza dalla terra ferma. Si chiese se, su una di quelle barche immaginarie, ci fosse il suo uomo che tornava vittorioso dai lunghi viaggi e se portava con sé il suo bambino, di cui non aveva più notizie… Poi si destò, alzandosi in piedi e gettando un sasso in mare e corse via verso il centro cittadino.
Wulfric non fece caso alla donna fin quando quella non gli sfiorò un braccio e gli sfrecciò di fianco, nel correre diretta chissà dove: ma non parlò, voltandosi semplicemente in direzione di quella nell'esatto istante in cui le passò vicino.
Appena Königin sentì gli occhi dell'umano puntati su di lei si fermò di colpo. Era come una trappola, che la tratteneva in quella posa a metà tra il disperato bisogno di fuggire e la necessità di un conforto di qualsiasi natura. Si girò di tre quarti e lo fissò. Poi, presa da un'inspiegabile ragione, si liberò del mantello e mostrato il collo indicò le sue collane. Alzò il primo pendente a forma di punta di freccia, in ferro scuro: «La forza del cacciatore» Poi il secondo e disse «La Saggezza del monaco» Ed abbassata la piccola testuggine d'avorio chiese «I vostri monili hanno un significato o sono tutti trofei di battaglia?»
Il Figlio di Njord sollevò la mano per frugare con le dita in mezzo alle cinque, sei, forse sette collane che indossava: ognuna di lunghezza differente, ognuna con un significato o un voto: «Entrambe, Hvit..» La chiamò Bianca, nel linguaggio natio, non sapendo come altro appellarla. E mentre spiegava, snocciolò collana per collana con le dita, a seconda di quale gingillo gli cascasse tra le mani: «L'energia dell'orso, la scaltrezza dei lupi. La protezione di Wotan. Il dente e il femore del nemico. Il ricordo di casa.» In mezzo a piume e perline, quella roba parlava di gente che aveva visto, gente che era morta, di una cultura strana e antica tipica delle steppe e di tutte le credenze che si portava addosso. Perfino la voce dell'uomo era dura, tagliente.
«Sei una cacciatrice?» Le chiese.
«In questo momento sì.» Rispose ambigua, continuando il suo gioco. Evitò di parlare del terzo ciondolo, più grande e in argento, e scoprendo la spalla mostrò la cicatrice più lunga: «Questa è stata una lancia teutone» ed il braccio sinistro «E qui l'alabarda di una guardia.»
Wulfric abbassò gli occhi color nocciola sulla cicatrice della donna; allungò il collo per meglio scrutarla e, a distanza così ravvicinata, odorava di muschio, sangue e sudore. Era un maschio tipicamente nordico e non poteva essere altrimenti, questo era poco ma sicuro: «Le tue parole sono criptiche come i tuoi occhi» E non a caso fu informale, nel rivolgersi a lei. Era chiaro che dalle sue parti si usasse in poche occasioni dare del Voi. La scrutò, silenzioso, portando la mano al capo per liberarsi dalla pelle di lupo e scoprire meglio il viso.
La ragazza s'avvicinò a sua volta. Tirò su col naso perché in fondo adorava il muschio e perché voleva ricordarsi il suo odore. Scavalcò i resti di un pupazzo di neve e quando fu abbastanza vicina da farsi soffiare la frangia, bianchissima, dei capelli dal fiato del nordico gli sussurrò: «Ti ho mostrato parte di me, figlio dei lupi, ed in cambio vorrei che tu facessi altrettanto..» Gli occhi, solitamente grigiastri si tinsero di un profondo nero e per una inspiegabile ragione abbandonò anche quella parrucca che puzzava di morte terra bruciata; lentamente scivolò a terra mostrando capelli neri come inchiostro e dal forte odore di more.
A quel punto l’uomo sollevò le sopracciglia in un'espressione perplessa, probabilmente non aspettandosi la rivelazione di quelle chiome scure. In un primo momento sembrò sobbalzare sul posto, ma rimase piantato in quel suo metro di spazio, alto e col mento sollevato fieramente: statuario come potrebbe essere un paladino il giorno del suo primo trionfo, permase in quella posa con Königin vicina: «Perché,» Le dice, fissandola negli occhi e allungando un poco il volto per premere la fronte sporca di terra e sangue sulla sua, in un blando contatto animalesco: «Questo non ti basta?»
«Mi stupisce una domanda del genere da uno come te. Sono un predatore vorace e insaziabile, perché dovrei accontentarmi di quello che possono vedere tutti quanti?»
«Non sei un predatore.» Sorrise, «Non sei nemmeno vorace. Non sai di cosa parli.» Ma il suo non fu un tono di rimprovero; la voce era graffiante e carezzevole, una sorta di sarcastico sfottò come quello che si farebbe ad un bambino. Allungò le dita per prenderle la mano, annuendo comunque alle parole di lei; intenzionato a scoprirsi, ma per farlo, necessitava di una cosa: «Dammi la mano. Vieni, vieni in foresta con me.»
Königin rimase spiazzata e intimorita. Avrebbe potuto tener testa a qualsiasi confronto diretto, a qualsiasi combattimento, insulto, reazione insolita ma non al naturale gesto del prendersi per mano. Non sembrò in grado nemmeno di poter nascondere la sua paura e fu forse quella a darle coraggio e a cedere alla richiesta. Di certo, il suo accompagnatore non avrebbe guadagnato una mano calda, né grande, né bianca. la mano della ragazza era fredda, violacea, e dava tutta l'impressione di toccare un cadavere.
Wulfric s’aggiustò la pelle di lupo; al di sotto, il petto peloso sussultò ma non per emotività o timore. Era solo il naturale moto del braccio che si stendeva e delle dita che cercavano quelle di lei. La mano del maschio era grande, forte, la stretta decisa ma delicata: un uomo che sapeva come impugnare l'elsa di una spada e, nel farlo, c'era bisogno di delicatezza altrimenti non si era rilassati nel combattere. Ecco. Lui prese la mano di Königin come avrebbe fatto per impugnare una spada, con lo stesso piglio: sollevò un poco il braccio come per renderle l'onore di farsi accompagnare, galante a suo modo - un modo strano, straniero - e la condusse verso la fitta boscaglia ghiacciata poco distante. Sparendo con lei nelle tundre.

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Ora posso anche morire, ho avuto tutto quello che volevo.
Anzi, rimango ancora un po' a burlarmi di voi.


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Ultima modifica di Emma Norton il Ven Set 17, 2010 1:38 pm, modificato 1 volta in totale
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MessaggioInviato: Ven Set 17, 2010 1:38 pm Rispondi citandoTorna in cima

° ° ° LE CRONACHE DELLO ZABAIONE: ALLA RICERCA DI SHAR! ° ° °


Nuove comparse:
-> Lord Sphinterius Beone ufficiale delle Orde di Ramius
-> Sa*cough*..Castiel Viandante nei pressi di Romar
-> Aranel Drow, sposa di Balrog
-> Zeb Drow carcerato
-> Balrog Elfo, amico di vecchia data di Emma Norton


EPISODIO II

~ Gli Amici Non Si Toccano! ~

Königin giunse ad Athkatla sulla sella di un magnifico esemplare maschio di Avelignese, portando in una saccoccia di stracci rattoppati qualcosa di pesante e rumoroso. Scese da cavallo e, prese in mano le briglie, s'addentrò nel quartiere residenziale. Ammise a sé stessa di non ricordare la strada, e chiese indicazioni ai passanti fino a giungere a quella che doveva essere la casa desiderata.
Bussò due volte ed attese risposta.
Nello stesso attimo Lord Sphinterius rotolò giù dal letto, svegliato dai colpi sul portone; biascicò qualche improperio e si diresse al pian di sotto. Indi, spalancando la porta: «Avanti, c'è posto!»
La ragazza, presa dallo spavento più puro, balzò all’indietro.
*Accidenti, ho sbagliato casa!* Si disse, ma parve non avere più molta importanza. Assottigliò gl'occhi e nella figura riconobbe un anziano ordaico.
«Bene..» E battendo due colpi di tosse si presentò all’uomo: «Svetlana Mangentile, della casata di Maulbourne, oltre l'isola di Kalux..» Accennò al corsiero alle sue spalle, aggiunse «Un presente della mia famiglia per il padron di casa..» E si mise di lato raccogliendo poche parole per descrivere l'animale: «Cloppete Sesto, purosangue e fedele cavallo da guerra. Il suo antenato, Cloppete Cloppete, era il cavallo che guidò il cancelliere Ontario il Sicario, mio trisavolo, a conquistare le regioni che tuttora, la mia famiglia, detiene da secoli..» Con altezzoso sguardo scrutò l'uomo dalla suola delle scarpe alla punta dei (pochi) capelli spettinati. Poi sganciò dalla sella il pesante fagotto e, slegandolo, lasciò andare i lembi mostrando quanto c'era dentro: «Questo invece è un mio regalo» Spiegò sbrigativa, scaricando un pesante mazzafrusto a due palle.
L’uomo si stropicciò gli occhi grattandosi un po' ovunque, poi, cercando di darsi un contegno: «Svetlana Cloppete avete detto? Benvenuta, dunque. Qual strana casata, non me ne vogliate, pare la vostra.. Venite da molto lontano?» Mentre confusamente attendeva ulteriori informazioni sulla donna appena trovata alla propria porta, lanciò uno sguardo al mazzafrusto sorprendendosi a pensare "Accipicchia che palle!"
«Svetlana Mangentile, e Cloppete è questo qua.» Benevola carezzò l'avelignese: «E lungo è stato il viaggio che ho intrapreso, sì» S'asciugò teatralmente la fronte con un fazzoletto, per simulare la fatica.
«Ah, capisco, capisco… Beh non rimanete sulla soglia, conduco il vostro Cloppete Sesto nella stalla e torno per offrivi quantomeno del rinfrescante..» Pensò un attimo alla propria dispensa «Spaccabudella, uhm.. In compenso, credetemi: è davvero freddo al punto giusto, accomodatevi pure...»
E al sol sentir parlare di alcolici, il viso di Königin si illuminò di euforia. Mimando un plauso leggero accettò volentieri l'invito. Entrò in casa.
Sphinterius scortò Cloppete nella stalla, assicurandolo ad una corda e dandogli del buon fieno; sistemato l’animale, girò i tacchi dirigendosi all'entrata, inciampando nel mazzafrusto.
Si risollevò e lo prese con sé, entrando finalmente in casa e chiudendosi il portone dietro.

Königin, indispettita per l'orario, camminava a passo svelto verso il centro della piazza di Romar. Scoprì il cappuccio, per rendersi più visibile, e batté la punta dello stivale sui sanpietrini canticchiando qualcosa a labbra serrate.
Castiel, di ritorno dalla foresta, affaticato e provato dallo sforzo ai monti Tybor, cercò ristoro presso la fontana della piazza. Le mani s'immersero nell'acqua e la mitigata temperatura subito sembrò arrecar sollievo al viandante: «Ouff.. Ci voleva!» Sospirò.
La nostra s’avvide del guerriero, andandogli incontro. Pugni chiusi sui fianchi, lo guardò con aria severa e poco paziente. Poi sbuffò, si strofinò il naso e l'apostrofò: «Isandora Nodds.. E bene, voi sareste?!»
Castiel alzò un sopracciglio alla vista della nuova giunta e, alquanto sbigottito, sia per gli arcani lemmi, che per la domanda postagli, ribatté: «..Di Grazia?»
Al fare dell’uomo, ancor più esasperata, la giovane si voltò in direzione dei cancelli: «Non fa niente.. Stavo aspettando il mio corriere, ma deve aver avuto un contrattempo.» E minacciandolo di morte sottovoce, tornò a scrutare il viandante: «Già che ci siamo.. Il vostro nome?»
Egli fece spallucce al suo bizzarro comportamento, ma deciso a compiacerla rispose: «Castiel è il mio nome. Pronto a servirvi Madame.»
«Castiel, Castiel…» Ripeté lei poco convinta. Poi, un barlume di luce sembrò ravvivarle il sorriso: «Ma certo, voi siete il nipote della prozia Sanadra! Quanti bei ricordi!» Annuì, «Il nonno del nonno di vostro padre sposò la cugina dello zio di mia madre e, per pura coincidenza, io e voi abbiamo passato l'infanzia nello stesso bugigattolo di campagna... Vi ricordate di me?»
Castiel si fece seriamente preoccupato: «Eh-Ehm...» Cercò di fermarla sventolando le mani davanti al suo viso, «Mi spiace, Madame, credo che la popolarità del mio nome v'abbia tratto in inganno..» Le mani tornarono a giacere lungo i fianchi «Non credo ci sia alcun grado di parentela fra noi, Io..» Attese un poco prima di parlare «Vengo da molto lontano.»
«Certo. E io sono parente della messaggera divina.» Lo prese a braccetto trascinandolo per le strade: «Castiel, carissimo Castiel.. Non ricordate proprio le collane di fiori che facevamo per le nostre madri? I pomeriggi passati a derattizzare le nostre camere e a raccogliere pesche mature dall'orto vicino?» Lo guardò preoccupata, con cipiglio triste e angosciato: «Com'è stato crudele il tempo a cancellarmi dai vostri ricordi! Se davvero dite di non ricordare nulla, potrei quasi svenire!» E simulò un mancamento.
La pelle della giovane al contatto con quella del viandante suscitò nell'uomo una sensazione di disagio, creata da un flash che improvvisamente affiorò nella sua testa: corpi e corpi straziati ed ammassati uno sopra l'altro. Visione atroce, la sua. Subito, si scostò ritraendo l'arto: «No!» Esclamò serio, per poi addolcire la voce non appena l'occhi tornarono a posarsi sulla fanciulla «Vogliate perdonarmi, ma sono sicuro della nostra estraneità.»
«Qual immenso dolore arrecate a questa donna, or quivi rinnegando parte del vostro sangue e la vostra famiglia che tanto vi ha amato prima dell'incidente.. Deh! Che notte piena di dispiaceri..» Squittì Königin, cominciando a singhiozzare forte.
Castiel portò qualche passo all'indietro, convinto, in cuor suo, d’esser incappato nella matta della piazza. “Daltronde, a quest’ora della notte chi potevo trovare io?!” Si chiese rammaricato, sperando che la donna, intenta nel suo singhiozzare, non lo notasse darsela a gambe.
La ragazza singhiozzava, piangeva, strillava e nel frattempo arretrava a sua volta. Poi, improvvisamente, scappò verso la foresta con le mani che le coprivano il viso. Alla giusta distanza, i pianti tramutarono in risate, prima leggere, poi sempre più forti fino a quando non estrasse da sotto il mantello il sacco di monete rubato al viandante. Lo soppesò nella sinistra, notando che era un bottino misero; fece spallucce e s'avviò verso Sehomar.
L’uomo invece rimase silente e turbato ad osservare la donna andare via, in quel che pareva un pianto amaro tramutato poi in folli risa. Ignaro d'ogni avviso, si recò nei campi.

Sir K, notando la nuova ascesa di Lurani, sfoggiò un gran sorriso portatore d'ogni fortuna. Sorrise a destra, sorrise a manca, sorrise in alto e si accinse a sorridere in basso, quando notò un povero verme dall'aspetto assai miserabile. Il nematode strisciò con grande umiltà ai piedi del discendente dei Von Unnamn. Rifletté un momento prima di sorridere: «Ciao, verme.» E lo pestò allontanandosi soddisfatto. L'azione malvagia quotidiana era infine compiuta.
Continuando ad addentrarsi nella foresta, tentò d'imitare il verso del ciuppolo blu, volatile assai raro di gran valore: «Uu.. *A-ehm*» Si schiarì la voce, portò le mani ad imbuto sul lato della bocca storcendo le labbra e ritentò: «Ujuuu!» Insoddisfatto del risultato, ritentò ancora. Mani a cono, labbra storte secondo il contorno d'una ruota di carro lungo la via per Glukmoore, occhi socchiusi e: «Ujuhuu Ujuhuu!» Risuonò perfetto tra il fogliame della foresta.
Königin, più in avanti, l'aveva sentito chiaramente. Quello era il verso del rarissimo ciuppolo blu che, se non era già una buona ragione cacciarlo per le sue teneri carni, era di sicuro un allettante passatempo per tassidermisti. Per un attimo, si guardò intorno sperando che nessuno la notasse e tolse la parrucca che l'ingombrava; scosse i capelli or liberi e gettò la chioma bianca terra. Dalla spalla fece scendere delicatamente la custodia del suo arco, battezzato Solitudine. Sciolse ambo i polsi prima di estrarre una freccia dalla faretra e posizionarsi per il tiro. Leccò la punta del dardo con malizia, come se le sue labbra potessero secernere un potente veleno, e tese bene la corda in direzione del suono. Al secondo verso, più chiaro e distinto, scrutò qualcosa muoversi tra i cespugli e senza perder altro tempo lasciò andare la freccia. A sentire i guaiti di dolore, accorse verso l’animale abbattuto sperando quantomeno di averlo colpito in un punto vitale.
Sir K si ritrovò così trafitto dal dardo d'un Cupido maldestro che, anziché mirargli al cuore, puntò dritto al deretano. Date le circostanze, tra un'imprecazione ed un grido di dolore, gli venne quasi da dire: “Per fortuna”. Saltellò e si dimenò ignaro del fatto che, nell'insieme, l'imitazione della danza amorosa del ciuppolo blu era così perfetta che i posteri avrebbero adoprato lo stesso doloroso sistema per riprodurre il difficil passo. Nel frattempo Königin s’era appiattita dietro un albero osservando l’ambita preda, ma accortasi dell'abbaglio uscì allo scoperto sbuffando irritata: «K...!» Lo chiamò, «Così imparate a fare il pazzo!» Poi, sempre guardinga, osservò la foresta che la circondava e rimise la parrucca prima che giungesse qualcun altro ad accorrere alle grida. Abbandonato l'arco si chinò sul viandante ferito, offrendo il suo appoggio e domandando con una punta di malizia: «..Volete ch'estragga io la freccia o ci pensate voi?»
E l’uomo, dapprima, s'arrestò imbarazzato trattenendo il grido di dolore che dal posteriore saliva lungo il dorso fino alle corde vocali: «Voi?» Domandò incurvando le mani come artigli minacciosi, «E sia...» S'arrende non appena la contrazione gli rammentò l'ordine preciso delle priorità.
«Fate voi che a me, da qui, viene un po' difficile.» E serrò i denti prevedendo a cosa lo sottoporrà la discendente d'un casato di macellai. La giovane lo accompagnò verso un tronco d'albero e strinse i denti a sua volta: non era il caso di far notare la febbrile eccitazione che provava nell'estrarre il dardo, e si voltò guadando altrove. Spezzata prima a metà la freccia, tirò via il resto. Subito dopo provvide a togliersi la giacca e rigirata la tracolla la svuotò sull'erba in cerca di qualche medicazione: «Ed ora spogliatevi. Debbo medicarvi.»
K, estasiato dall'idea di non aver più quell'incomoda ed estranea protuberanza conficcata nelle regioni più soffici, accondiscese non senza qualche remora “Ci manca solo che passi Oberon!” Si levò dapprima il mantello, poi la camicia, poi la cintura, poi la collanina con le perline, poi lo stivale destro, quello sinistro, i pantaloni e quell'altro indumento che i più usano per scaldare le parti più intime. Staccò una foglia da un fico e, adornandosene, si voltò domandando: «Così?» Assaporando la fresca brezza che sovente cantava tra le fronde della foresta, aveva l'impressione che la medicazione avrebbe preso più tempo del previsto.
Königin alzando le spalle commentò con un «Può andare..» Ed armata di strani flaconi blu ed un grande cerotto si piegò sull'erba: «Sdraiatevi qui, uomo della foresta..» Adagiò su un panno una grande quantità di alcool e due gocce di mercurocromo «Sdraiatevi pure a terra a pancia in giù» Lo invitò.
«Uomo della foresta?» Domandò a sua volta guardandosi intorno «Ah.. Profferivate lo verbo a me rivolta?» Tentò di guardarsi il didietro sbirciando da sopra la spalla. L'idea del contatto con quel panno coperto delle fiamme di Sehomar non fu proprio allettante, ma era tardi per tirarsi indietro. Senza contare che quella foglia di fico sarebbe divenuta sicuramente la moda della stagione. Abbozzò un: «Veramente preferirei restare in piedi.. Mi si addice di più.»
«Come preferite..» Rispose minacciosa, «Ma se tentate di scappare mi vedrò costretta a legarvi ad un albero» Ed avvicinatasi al fondoschiena dell'uomo prese come precauzione una certa distanza da probabili ed indesiderate emissioni gassose ed applicò l'impacco sulla natica ferita: «Ma che glutei scultorei che avete..» Commentò, forse con poca convinzione nella voce, ma del resto cercava solo di distratte K dal bruciore: «Qual è il vostro segreto? Fate molta palestra?»
Il giovane uomo sopravvisse misteriosamente al contatto di quel panno infernale. E mentre i sette demoni dell'Apocalisse sembravano ballare il flamenco proprio sul suo fondoschiena, rispose tra i denti serrati: «Wooo! Eh sii? No, no... Niente palestra...» Riprese fiato prima di aggiungere «Le terga sono solo question... Iuhuu!... Questione di fortuna.»
«Ho quasi finito» Annunciò mentre estrasse una piccola scheggia di legno; andava già bene, ma decise di stuzzicare le orecchie col dolore di K ancora per qualche minuto. Quando ebbe finito schiaffò il cerotto rialzandosi e riponendo gli unguenti: «Allora K, avete buone notizie sul compito che vi ho affidato?»
«Vi riferite a Shar?» Le domandò. Lentamente si rivestì con le terga che ancora fremevano nel ricordo di atroci dolori.
«Sì, avete qualche informazione?» Königin si piegò un istante per issare sulla spalla la tracolla e raccolse l'arco ma senza smettere di guardare speranzosa in direzione dell'uomo, che rifletté un momento prima di rispondere.
«In principio l'affidai alle cure di una cara amica, Emma Norton di Romar, che lo trattò come fosse un figlio.» Sospirò, «Tuttavia ella è scomparsa e così anche il suo misterioso fratello, Ombranera Cacciagrossa, un tipo assai strano a dire il vero.» D'un tratto schioccò le dita: «Aspettate! C'era un'elfa, Shana di Glorfindal, con cui Shar si allenò diverse volte: forse lei potrebbe saperne qualcosa.»
Lei arricciò il naso. Fece scivolare gli occhi sul terriccio bagnato ai piedi di K, meditando. Risposta, bugia o scusa che uscì da quella bocca, riuscì a malapena a contenere parte del suo dolore: «Della loro sorte, ho conoscenza, mio fidato amico. Di quest'elfa, invece, so ben poco, ma dubito che un esponente di quella razza possa aiutarci. Voi sapete bene come siano eccentrici gli elfi e a maggior ragione se il nostro piccolo amico li ha passati a filo, non credo che questa Shana vorrà aiutarci nelle ricerche. Ma so di un'Accademia ad Athkatla, dove s'insegna ai bambini dell'età di Shar. Probabilmente sarà tra quelle mura, ma la mia reputazione non mi permette di entrare in città ad indagare senza avere il fiato maleodorante delle guardie sul collo.»
«L'Accademia?!» K trasalì domando: «Esiste ancora?!» E mentre un ampio sorriso si allargò sul suo volto, «Intendete l'Accademia della Sapienza che fu fondata con il tesoro degli Immortali?»
Ma Königin non sapeva che dire. Restò zitta per qualche secondo pensando a questo tesoro di cui non ne sapeva nulla. Ma non spettando a lei giudicare se tali ricchezze fossero state spese bene o male, anziché deglutire sputò per terra a mo' di strana scongiura e mormorò qualcosa che tenne per sé. Poi aggiunse: «Sarà quella. Allora, vi va di fingervi studente e di indagare per me?» Ed abituata a contrattare con gente che non faceva lavori gratuiti, prontamente seguitò con: «Sarete ricompensato K, per ogni vostro sforzo. Dal più piccolo al più grande.»
«Se per voi non è già una ricompensa sufficiente il bene del bambino, senza dubbi.» Specificò l’uomo, che trattandosi di un amico avrebbe anche potuto offendersi per il denaro offertogli. Tuttavia annuì con occhi che nulla lasciavano trasparire: «Così sarà.» Concluse, «Per la ricompensa, ne riparleremo a tempo debito.» Poi volse lo sguardo intorno a sé mirando il fogliame «Dov'eravate diretta, milady? Forse posso accompagnarvi sino alla vostra destinazione: questi boschi non son mai sicuri come li si crede.»
Ma l’assassina, con sprezzante orgoglio, assottigliò gli occhi su K alzando il mento; finì di indossare la giacca e mise in spalla l'arco prendendo poi sottobraccio l'uomo: «Lo apprezzo molto, ma non sono io quella che è stata appena ferita da un'abile cacciatrice e maniaca di sangue.. Pur volendo, non potreste accompagnarmi nel luogo in cui mi sto per recare.» Lo lasciò andare con un casto bacio sulla guancia e si allontanò verso Sehomar.


~ In Prigione. Un’altra volta. ~
Sir K Von Unnamn discuteva animatamente con lo sceriffo prima di lasciare sul desco una borsa gonfia d'oro: «..Ed ora le chiavi!» Concluse spicciolo.

Aranel venne spinta dalle guardie nella cella, come al solito lurida e piena di sorci. Intanto pensava a Balrog, nella speranza che la venisse a tirare fuori nuovamente, ma si rendeva conto che non poteva sempre tirarla fuori dai guai, doveva essere lei a cambiare una volta per tutte.
“Ancora una volta qui.. Finirà mai?!” Si chiese, sdraiandosi sulla branda e guardando la fioca luce riflessa dalle sbarre. Poi s’alzò di scatto andando verso le sbatte, sbraitando: «Qualcuno mi faccia uscire da qui! Guardie, dove siete?! Quando qualcuno vi cerca possibile che non ci siete mai?!» Teneva le sbarre strette tra le mani, poggiando la fronte per vedere se ci fosse qualcuno ad ascoltarla. Si sentiva logorare tra quelle quattro piccole mura e voleva uscire ad ogni costo.
Balrog fece il suo ingresso nella prigione, paonazzo in volto: «Eccom*hic*i qui mia Signora, sono qui per voi! Ho i*hic*niziato il mio cambiamento mia S-Signora, le mie mani sono sporche del sangue di innocenti e di Z-Zeb, non ci vorrà molto, presto di*hic*venterò come voi!»
«Mio amato, cosa state dicendo! Io non voglio che diventiate come me, non lo augurerei mai a nessuno, tanto più a voi che ci siete già passato… Vi prego, tornate quello di prima, vi ho sposato per come eravate e non per quello che volete diventare, siete ancora in tempo!»
Königin s'alzò in piedi e corse verso le grate della sua cella gridando a gran voce: «Balrog!» Poi si ritrasse, nascondendosi nel buio della piccola stanza ed attese che l'uomo si facesse vedere.
Zeb venne accompagnato di fronte la sua cella e sbattuto dentro senza molti riguardi: «Che diamine...» Si rivolge alle guardie mentre chiusero a doppia mandata la cella «Dovreste avere un po' più di cortesia per un vostro così affezionato cliente!» Guardò la camera e si diresse verso la fessura che, con un eufemismo, illuminava la stanzetta; appoggiò la mano su una pietra sottostante la fessura, diede una veloce sfregata alla pietra e poi, ironicamente, disse: «Vediamo quante volte sono stato rinchiuso in questa cella» Si mise scrupolosamente a contare i tagli verticali sul sasso.
La drow, distesa sulla branda, udì la voce di Zeb che doveva trovarsi nella cella accanto: «Buonasera, Zeb. Ma guarda un po', anche voi qui?» Il tono di voce era ironico, visto che ormai per lei era l'ennesima volta che Oberon la sbatteva al fresco.
«Buonasera a voi, Aranel. Si, anch'io mi trovo qui, il buon sceriffo non poteva fare a meno di invitarmi a trascorrere qui la nottata. Si vede che mi trova particolarmente simpatico.»
«Probabilmente la stessa cosa vale per me!» Ridacchiò Aranel, «Mi troverà così affascinante da non poter fare a meno di me!» Intanto guardò fuori dalle sbarre, pensando a come starebbe se si trovasse vicino a Balrog in questo momento. Sicuramente meglio.
L’elfo si sentì chiamare, ma non riuscì a capire chi fosse stato. Poi guardò gli altri: Aranel non era stata, Zeb figuriamoci, quindi notò una terza persona, dal viso vagamente familiare, conosciuta forse tanto tempo fa.
Königin sorrise, indi tese il braccio oltre le sbarre sussurrando: «Avvicinatevi, mio signore. Mostratevi alla luce di questa torcia, è mio desiderio vedere quanto e come siete cambiato dal nostro ultimo incontro...»
Balrog non si sbagliava. Era proprio lei: «Ne é passato d*hic*i tempo.. E a quanto vedo siete rinata del tutto, ma l’i*hic*ndole é sempre la stessa.»
Aranel notò la forestiera parlare con il suo sposo ed acuì l'udito in quella direzione: voleva sapere se i sospetti su di lei erano fondati. Ma l’umana la ignorò completamente, concentrandosi su Balrog ed osservandolo bene per qualche attimo; poi chinò lo sguardo, rispondendo malinconica: «..Rinata?! *Voi* siete rinato! Guardatevi, ché i miei occhi inorridiscono.. Quale tremenda disgrazia v'è capitata e v'ha ridotto così?! Che sciagura.. Un elfo! Ditemi che è frutto di un sortilegio così che possa trovar rimedio a questo maleficio e ridarvi umane sembianze!» S'allontanò cominciando a girare avanti e indietro nella cella, con le braccia incrociate dietro la schiena «..Ad ogni modo, non è il luogo né il momento adatto per parlare di me. Del resto, queste mura hanno occhi e orecchie, e poi la persona che ricordavate non è presente ora, dato che ho preso il suo posto...» Alluse al suo vestiario, agli occhi grigi ed ai capelli bianchissimi, raccolti in uno spillo adorno di ventaglio. Indossava una gonna color prugna, in morbido velluto, ornata da pizzetti scuri e strascichi color panna che addolcivano il rigido bustino nero, riparo sicuro per le vistose cicatrici su ambo le spalle. «E vedo con piacere che avete trovato moglie.. Perché non mi presentate la vostra dolce metà?»
E l’elfo buttando giù un’altra sorsata di alcool rispose: «I*hic*l Balrog di una volta si è assop*hic*ito in me. Ho smesso con *hic* quella vita, è vero*hic*, c’è stato un tempo in cu*hic*i uccidere era la mia specialità ma troppo sangue è stato versato *hic* per colpa di queste mani ma voi lo sapete bene, più di chi*hic*unque altro. Non so se *hic*c'è un modo per riportare fuori*hic* quella parte di me, ma si*hic*nceramente per ora sto bene così.. *hic*» Poi indicò la donna alle sue spalle: «Le*hic*i è Aranel, la mia consorte. So *hic* che può sembrarti strano che un elfo *hic* ed una drow prov*hic*ino dei sentimenti l'uno per l'altra, ma il de*hic*stino ha voluto così! ..Piu*hic*ttosto, raccontatemi di voi! Co*hic*me mai siete ritornata da *hic* queste parti?»
Königin arretrò, schermandosi la bocca ed il naso con la sinistra: «Balrog, potreste prestarmi la vostra bottiglia di scuotiventre e cortesemente porgermi la torcia dietro di voi? ..E non ditemi che non avete dell'alcool. Si sente dal vostro.. fiato..»
Zeb, dall'interno della sua cella - una seconda casa, oramai, visto il tempo che passava in quel fetido tugurio - sentì gli altri prigionieri parlottare fra di loro. Le voci, i brusii, le patetiche lamentele di chi si rammaricava per il fatto compiuto, lo stavano annoiando. Sedette per terra, incrociando le gambe, ed attese: rise spezzante tra se', quando sentì qualche sventurato tentare di suicidarsi: «Patetiche nullità, non avete neanche il coraggio per affrontare qualche ora qua dentro!»
Aranel ascoltava con interesse la conversazione. Quell'umana aveva preso il posto di qualcuno e, forse, lei aveva intuito di chi. Una volta sentito il suo nome decise però di intervenire: «Piacere milady, finalmente ci incontriamo! Anche se in una squallida cella, la quale poco si addice ad un dialogo di conscenza. Sono Aranel, Aranel l'oscura.. Voi invece, che tanto tenete latente la vostra persona, chi siete? Il vostro nome non è nel mio interesse, Dersalan parla già di voi, Königin Von Dornbusch, ma ciò che vi chiedo è: chi eravate, prima di questa insulsa e banale forma umana?» La guardò attentamente tra le sbarre. I lineamenti non erano di certo familiari, ma quel caratterino era inconfondibile. Spavaldo,, egoista e sbruffone. Non poteva che essere la sua anima... Sfruttò i suoi poteri scrutandone l'aura maligna, carica di rancori, ma non riuscì ad intravedere le risposte alle sue domande.
Il drow sentì Balrog e Aranel parlare con una sconosciuta dal nome altisonante e impronunciabile: “Un'essere che utilizza un nome del genere credo che abbia dei grossi problemi di autostima! Già me la immagino, di fronte ad uno specchio a fare le prove della propria presentazione davanti ad un immaginario pubblico!” Sogghignò tra sé. Tutto sommato credette di averla già incontrata e pensando a dove poteva averla vista s'accorse però di non ricordare né il suo nome, né la sua fisionomia. Rifletté dunque sulle parole di Aranel: “chi eravate prima?” Ma anche a ripensare ai modi e alle parole, la sconosciuta non gli ricordava nessuno in particolare. “Su una cosa ha ragione però.. Qui tutto ha occhi e orecchie, indi, se c'è qualcosa da sapere la saprò. Ora è inutile pensarci troppo!”
«Aranel, le*hic*i è una cara amica, ha camminato con me su queste terre, all'epoca di Arloc e di quando io ero malvagio. Credo di non avertene ma*hic*i parlato perché non credevo sarebbe tornata da queste parti.» Tossì fragorosamente cercando di darsi un contegno, ma oramai gli effetti della sbornia iniziavano a scemare.
«Balrog dice il vero, milady Aranel.» Annuì la giovane umana «E non ho mai conosciuto altra forma se non quella umana. Probabilmente mi avete confusa per qualcun'altra.. Per certo, posso dirvi che la persona di cui sospettate ha preso forme che difficilmente potreste immaginare..» Senza difficoltà, la ragazza intuì la persona a cui Aranel alludeva; per Königin era facile leggere i pensieri di una mente malvagia come quella della drow. E conoscendo le risposte a domande che dovevano restare irrisolte, lasciò solo una vaga idea della sorte dell'altra sventurata, in modo da togliere ogni dubbio sulla sua identità. Allungò poi la mano verso l'elfo: «Allora Bal, vecchio mio.. Mi passate la bottiglia e la torcia? Devo.. Fare un piccolo esperimento..»
«Prendete milady, ancora non capisco che genere di esperimento vogliate fare..» Rispose l'amico un po' confuso.
Afferrato l'alcool, l'umana aggiunse della polvere bianca – zucchero, niente di anormale - agitando energicamente il contenuto. «Lo vedrete..» Prese un fazzoletto e lo trascina nella bottiglia lasciando un orlo al di fuori e dandogli fuoco con la torcia. Poi chiese all'elfo di farsi più in là.
Zeb ascoltava giocoforza la conversazione fra i tre, trovandosi nella cella attigua a quella di Aranel e di fronte a quelle dell'elfo – una volta malvagio ma ora evidentemente non più - e della Misteriosa. La misteriosa – anche alchimista -, per l'appunto, la vide maneggiare una bottiglia, con qualche altro intruglio ed un pezzo, gli sembrava, di panno al quale diede fuoco: «Madame,» Disse rivolgendosi alla Sconosciuta «Non vorrete mica arrecar danno a queste ospitali ed accoglienti prigioni, vero? Oppure volete con un teatral gesto alchemico ridar forme che a voi più aggradano al, prode, elfo paladino, ma in tal caso, fossi in voi, chiederei alla di lui Bella Consorte se è d'accordo!» Poi arretrò un po', preparandosi al peggio, non confidando molto né sulle buone intenzioni della donna, né sulle sue reali capacità.
«Grazie per il commento fuoriluogo, Zeb!» Balrog l'osservò di sbieco, minacciandolo con lo sguardo: «Ti ricordo che, in quanto lord maestro del fuoco, non credo che una fiammella tanto misera possa farmi dei danni. Piuttosto, sono preoccupato per voi e per gli altri presenti, in quanto rinchiusi dietro queste sbarre e con il fuoco che avvampa non mi sembra una buona idea!» Si girò allora verso la donna, intenta a bruciare il pezzo di stoffa. Quali che fossero le sue intenzioni, voleva farla retrocedere dall'idea di lanciare quella bomba incendiaria: «Io aspetterei, milady, in fondo un giorno di riposo in cella non può fare che bene, e poi siamo in compagnia!»
La drow studiò le movenze dell'umana alzando un sopracciglio e sorridendo: che diavoleria voleva mai fare quella donna? Forse incendiare le prigioni con loro dentro? Per prudenza, si allontanò dalle sbarre: «Vogliate farmi grazia delle vostre diavolerie milady, non voglio trovare Ramius prima del tempo..» Ma Königin non batté ciglio alle chiacchiere inutili dei due drow e, non appena Balrog fece un passetto di lato, lanciò la bottiglia. Sfortunato chi aveva scelto di trovarsi nella cella di fronte alla sua. Fortunato, invece, chi poté assistere alla scena: «Concordo con voi, Balrog. Ma è da quando sono arrivata che fremo dal desiderio di vedere come brucia bene la pelle di questo drow!» E s'accucciò a terra per gustarsi meglio la scena: «Naturalmente, il piscio che v'hanno venduto per alcool è troppo annacquato per poter bruciare l'intera prigione, tantomeno per fare una crepa sul muro... Vediamo quanto tempo passa dall'arrivo del custode. Se siamo fortunati, assisteremo ad una combustione in diretta» Poi si rivolse ad Aranel: «Fossi in voi, milady, farei la pipì davanti la porta per evitare che le fiamme raggiungano le grate.. Oppure chiederei aiuto al mio sposo..» Borbottò sottovoce.
«Königin, siete sempre la solita! Guardia, vieni a spegnere questo principio d’incendio, qui comincia a fare caldo!» L’elfo accorse a chiamare aiuto nella stanza dello sceriffo ma non trovò nessuno.
L'umana non sapeva che i poteri di Aranel l'avrebbero protetta dalle fiamme: ormai, dopo la trasformazione, nessun elemento poteva scalfirla. Subito pose davanti alle sbarre uno scudo magico, creato come prolungamento della sua aura malvagia: «Non so chi siate, milady, ma quanto pare mi sbagliavo e, tra l’altro, siete un po' troppo agitata per i miei gusti!» Pensò per un attimo al drow suo vicino di cella, a come se la stesse cavando. Avrebbe voluto aiutarlo.
«Chi usa i suoi poteri per così poco deve essere di una mentalità davvero debole e insignificante. Una cosa è certa, Aranel, le voci sul vostro conto erano più che esatte...» Königin era delusa, lo si poteva leggere chiaramente nei suoi folli occhi. Poi, sfilando lo spillo dai capelli, sbloccò la serratura della sua cella: «Tanto le mie 24 ore erano passate già da un pezzo» Disse andandosene.
«Beh, ci ha preso tutti per i fondelli!» Esclamò Balrog, una volta tornato.
La drow non ribatté alle insinuazioni dell'umana, non ne valeva la pena. Anche con le parole quella specie di pazza agitata non avrebbe capito che i suoi poteri la proteggevano automaticamente, senza che lei sfoderasse un'arma. Le fece un cenno con la testa, salutandola, mentre lei nuovamente dovrà passare un' altra lunga giornata là dentro.
Zeb si spostò, vedendo la sconosciuta lanciare verso la sua cella l'arma incendiaria. Appena i vetri si frantumarono a terra l'alcool si spanse e prese fuoco, mentre alcune fiammelle azzurrognole s'alternarono a sbuffi rossi e bianchi. Imprecò mentre, con l’ausilio del suo mantello, spense la fiamma che rischiava di incendiare anche il pagliericcio utilizzato come giaciglio. Tra un'imprecazione e l'altra riuscì a sedare l'incendio. Guardò con preoccupazione le condizioni del mantello, bruciacchiato in un paio di punti: «Ecco cosa ci si guadagna a fare dell'ironia con gente troppo rozza e tronfia per capirla!».

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Ora posso anche morire, ho avuto tutto quello che volevo.
Anzi, rimango ancora un po' a burlarmi di voi.


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