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 Le Cronache dell' Aurora Successivo
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Emma Norton
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MessaggioInviato: Ven Nov 13, 2009 1:57 am Rispondi citandoTorna in cima

* * * LE CRONACHE DELL’ A U R O R A * * *

Non si sa il nome del saggio che lo pronunciò, tuttavia esiste un detto: “Dalle ceneri del caso a volte nasce il Fato”
...Molte cose accadono per coincidenza, molte altre sembrano già scritte.. E sottile è il margine tra le due eventualità!



Personaggi:
-> Akhayla Legionaria di Romar
-> Conte Nether Caliban Umano paladino, membro anziano dei Claw
-> Emma Norton Mezzo-demone, origini sconosciute


EPISODIO I

~ La Lettera ~
Il destino è scritto!

La missiva sotto la porta era immobile. Il vento non riusciva nemmeno a spostarla, o a farle arricciare gli angoli: ciò che conteneva era troppo pesante per permetterle di muoversi. Il sole di Athkatla colpiva la metà che sporgeva all’esterno, fino a che un’ombra non la sovrastò. Una figura alta e snella, avvolta in un mantello. La osservò, poi lentamente si abbassò e una mano la sfilò delicatamente da sotto la porta, prima di armeggiare col chiavistello ed aprire i battenti. L’interno era silenzioso, immenso, e ben curato. Dalle feritoie che correvano lungo le pareti entrava il sole del primo mattino, proiettando coni di luce lungo tutto l’atrio. Un ingresso sfavillante nell’alba che rendeva onore al nome della dimora: Aurora di Fiamma.
Avanzò con passo spedito, attraversando l’atrio quasi con incedere militare. In fondo alla sala v’era un grande camino in marmo e granito, fregiato di complicati intarsi. Proprio sopra la bocca del caminetto svettava un enorme muso, imbalsamato, che si protendeva verso l’esterno: la testa di un Drago. Il suo ultimo ruggito sembrava essere stato immobilizzato insieme a lui, in quelle fauci zeppe di denti affilati, in quello sguardo minaccioso e sanguigno. A prima vista, poteva sembrare il vero guardiano della dimora, pronto a scrutare ogni qualsivoglia persona osasse addentrarsi. Ma finora, a dire il vero, solo una aveva avuto occasione di posarsi sotto il suo sguardo vitreo. Giunse proprio di fronte al camino e smosse le braci. Erano ancora rosse. Gettò diversi ceppi e con un breve lavoro di mantice fece sì che il fuoco attecchisse. Le fiamme lambirono pigramente la legna secca. La figura rimase immobile per qualche secondo controllando che fossero abbastanza sostenute per non cedere, dopodiché si slacciò il mantello e con un gesto secco si abbassò il cappuccio sulle spalle. Una zazzera rossa come il fuoco venne liberata, ad incorniciare un volto di ragazza con due profondi, quanto gelidi, occhi grigi. Finì di slacciare la gorgiera del mantello e se lo tolse rapidamente di dosso, gettandolo con un movimento calcolato su uno dei sofà lì accanto. La luce del fuoco si riflesse sull’acciaio che aveva addosso. Ampi paraspalle, paracosce, e dei grezzi schinieri fatti di piastre: una corazza da legionaria. Una spada, custodita in un fodero nero, le pendeva dal fianco. Aveva il vizio di accarezzarne il pomo, quand’era nervosa.
Il fuoco divampava. La legionaria fissò la missiva come se l’aspetto esterno potesse rivelarle qualcosa sul contenuto ancor prima di aprire la busta. La soppesò nella mano, percependo il peso più consistente che non poteva essere imputabile a semplice carta. Corrugò la fronte. Finora aveva ricevuto solo due tipi di missive: o da ambasciatori dei clan, che avevano udito delle sue recenti vittorie contro il drago e desideravano che aderisse anche lei, o da perfetti sconosciuti che la invitavano ad incontrarsi per scambiare due chiacchiere. In entrambi i casi, in maniera più o meno cortese, aveva sempre rifiutato, o più semplicemente le aveva ignorate. Non erano state rare le volte in cui non era la legna ma la carta delle pergamene ad alimentare il fuoco del camino.
Era quel peso che la rendeva perplessa. Girò la missiva sul lato opposto, leggendo il nome del mittente…

Nether

Un ceppo produsse uno schiocco mentre cedeva al fuoco. La guerriera rifletté. Quel nome lo aveva forse già udito ma non le diceva niente. D’altronde, non passava giorno ad Athkatla senza un editto che annunciasse l’ultimo glorioso vincitore di uno scontro con un drago verde. Erano così tanti e differenti i nomi che udiva pronunciare… Compreso il proprio.

Akhayla

Aprì il sigillo, sollevando la linguetta della busta. Non appena la inclinò per estrarre il foglio contenuto, il peso, che si rivelò piccolo e concentrato, si spostò velocemente e per poco qualcosa non sfuggì fuori. La legionaria la afferrò al volo e contemplò l’oggetto sul palmo della mancina. Una chiave. Akhayla inarcò un sopracciglio. L’oggetto era di particolare fattura, e dalle dimensioni indovinò subito di cosa potesse trattarsi. Più oscuro, invece, era il motivo. Una qualsiasi ragione che potesse spingere qualcuno a donare ospitalità ad una perfetta estranea…
Aprì la pergamena, accuratamente ripiegata nella busta. La scrittura era elegante, semplice da leggere. La legionaria la rilesse più volte, non riuscendo a discernere quale secondo fine potesse nascondere quella semplice lettera di accompagnamento. Si morse il labbro... Una situazione curiosa.
Aveva in mano la chiave di Middenheim, la dimora di Nether, nel quartiere residenziale di Romar. La legionaria alzò lo sguardo dalla lettera e rimase a guardare pensosamente l’oggetto, mentre il fuoco continuava ad ardere nel camino. Il silenzio più estremo avvolgeva la sala. Dopo qualche momento la ragazza si riscosse. Ripiegò il biglietto nella busta, poi la sua mano esitò di fronte al caminetto. Passò qualche secondo, poi ripose delicatamente la missiva sopra la mensola. Continuò a fissarla, come se le parole ivi vergate le stessero parlando, come se si aspettasse di udirle da un momento all’altro. Infine ripose la chiave nella saccoccia e afferrò il mantello, ripercorrendo rapidamente l’atrio per poi chiudersi rapidamente la porta d’ingresso alle spalle.

Un’ora dopo, un superbo stallone nero si avvicinava galoppando nei pressi di Romar. La legionaria lo spronò a tutta velocità, sorpassando carovanieri e viandanti, fino a giungere nella periferia. Le indicazioni nella lettera erano chiare e le ripercorse nella mente. Amroth sbuffava per la corsa, divorando la strada con sorprendente rapidità. Finalmente Akhayla tirò con forza le briglie, arrestandolo in uno spiazzo e si tolse il cappuccio dal volto per contemplare meglio ciò che aveva davanti agli occhi…
Un’immensa torre. Contava almeno tre piani e si ergeva maestosa all’interno di una cinta muraria di notevole espansione. Akhayla la fissò dal basso in alto. Era molto più grande della sua dimora, sebbene di tutt’altra foggia e stile, e passando a volte per Romar l’aveva vista da lontano. Certo, contemplarla dalle falde era tutt’altra cosa: ci si poteva rendere conto di quanto si fosse piccoli al confronto.
«Middenheim…» Akhayla assaporò quel nome sulle labbra, a bassa voce. Ripensò alle parole nella missiva, ripercorrendo ogni frase più volte nella propria testa. Le sue dita giocherellarono con la saccoccia che custodiva la chiave della torre. Era divisa tra prudenza e desiderio di sapere. Dietro ogni persona poteva celarsi il migliore alleato o il peggior nemico, e al momento non sapeva cosa aspettarsi.
Sapeva che, comunque, Nether era un Claw. Così si era firmato nella missiva. Era un clan che da un certo lato la attirava molto. Ne conosceva gli ideali, sapeva che ogni membro doveva sempre guidare le proprie azioni seguendo la via dell’onore e della rettitudine, se così si poteva condensarne il pensiero. Akhayla sospirò. Erano ideali che un po’ combaciavano con la sua linea di vita. Sebbene se ne stesse sempre per le sue, non aveva mai attaccato un solo uomo, viandante o nobiluomo che fosse, sempre se prima non fosse stato quell’altro a rivolgere le armi contro di lei. Cercava sempre di combattere lealmente, quando non vi era costretta e, soprattutto, non batteva mai ciglio quando si trattava di debellare la minaccia dei draghi. Più volte aveva pensato di unirsi ai Claw. Più volte aveva soppesato l’idea, mentre rimaneva accoccolata a contemplare le fiamme del camino… E ogni volta faceva marcia indietro. Non aveva intenzione di legarsi ad alcun clan in quel periodo. Non finché ancora aveva così tanti interrogativi su se stessa. Non finché non avesse fatto chiarezza sui vuoti della sua vita.

…Nether…

La curiosità era forte, tuttavia al momento non sentì l’impulso di farsi viva. Anzi, a dire il vero si era soffermata anche troppo da quelle parti. Aveva da fare, era tempo di caccia... Carezzò la spada al fianco e spronò Amroth dritto verso la foresta.

La Mano di Ferro era piena di ubriachi, quella sera. Akhayla se ne stava in disparte, nel suo solito angolo, i piedi accavallati e distesi sulla panca su cui sedeva, la schiena appoggiata al muro. Il boccale di grog che aveva poggiato sul tavolo era ancora pieno: non ne aveva bevuto nemmeno un sorso. Era semplicemente là, avvolta nel mantello, col cappuccio sugli occhi. Se qualcuno avesse avuto la possibilità di guardarla in volto in quel momento, si sarebbe accorto che in realtà lo sguardo era vago, perso a seguire di pari passo i pensieri della mente. Quando uno degli avventori le cadde quasi addosso, se ne disfece con un gesto quasi meccanico, sospingendolo via con una pedata. Le dita giocherellavano con la chiave che teneva nella saccoccia. Pensava, pensava, e in tutta quella storia più cercava di trovare un filo logico e più si perdeva nella matassa dei propri pensieri.
Ospitalità. Un luogo dove rifugiarsi quando i tagliagole sembravano puntare sempre e solo la sua dimora. Akhayla soppesò bene quel concetto. Sebbene si stesse scervellando per capire un qualche secondo fine, non riusciva ad individuarne nemmeno uno. E d’altronde, quale poteva essere? Lei nel regno praticamente era un’ombra. Tutti magari avevano udito il suo nome almeno una volta, negli editti che proclamavano l’uccisione di un drago, ma nessuno poteva dire che la conoscesse. Sempre solitaria, sempre schiva. Era così che andavano le cose. Era così che *dovevano* andare le cose. A volte rimanere in solitudine e nell’ombra era l’unica maniera per sopravvivere. Sennonché
Si alzò di scatto. Di fronte a lei un altro ubriaco caracollò per poi biascicare qualcosa sull’offrirle un po’ di compagnia. Lo respinse senza tanti complimenti, facendolo sbilanciare proprio sulla panca ov’era seduta lei ed uscì a passo deciso dall’Osteria, per poi dirigersi verso il quartiere delle botteghe. La sera stava calando rapidamente. Forse era tardi per un mestiere del genere, tuttavia non per questo non poteva tentare.
La bottega del fabbro non era molto lontana, la fiaccola all’interno divampava ancora e si udivano dei rumori di maglio. Akhayla sbirciò oltre l’ingresso. L’uomo, Mighty, stava lavorando ad uno spadone nuovo di zecca. Quando la udì arrivare, interruppe il proprio lavoro e le rivolse un cenno di saluto: «Buonasera, milady. Posso fare qualcosa per voi?»
Sulle prime Akhayla quasi perse il coraggio per quello che stava facendo. “Dai, muoviti” si spronò, ed entrò nella fucina: «Sì, potete» e ficcò la mano nella propria tasca, estraendo un’altra chiave. Era quella di Aurora di Fiamma. «Ho bisogno che facciate un’esatta replica di questa chiave e che a lavoro ultimato la recapitiate alla persona e al luogo che vi indicherò.»
«Datemi una mattina di tempo e l’avrete, milady» Confermò il fabbro.
«Bene. Se adesso sareste così gentile da offrirmi pergamena e calamaio, vorrei lasciarvi anche una missiva di accompagnamento con tutte le indicazioni sul destinatario.»
L’uomo le indicò una mensola ove era riposto tutto il materiale che richiedeva. Akhayla se ne appropriò e si mise su un piano libero, esitando sulla carta. Pensava alle parole da scrivere. In effetti non sapeva nemmeno lei. “Immagino che un ‘Grazie, altrettanto’ non basti…” Le venne da pensare, quasi scherzosamente. Infine vergò di getto:

Messere,
ho ricevuto la Vostra lettera e la chiave di Middenheim.
Confesso che sono rimasta sorpresa dal Vostro gesto.
Tuttavia, non sarò così scortese da non ricambiare il favore.
Questa missiva contiene la chiave di Aurora di Fiamma.
Vi prego di custodirla gelosamente. La mia dimora Vi ospiterà
ogniqualvolta lo desideriate e, se qualche nemico dovesse minacciarVi,
potrete contare sulle sue mura per la Vostra protezione.
Con onore,
Legionaria Akhayla


La rilesse. Sì, poteva andare. La dialettica forse non era la sua migliore virtù, tuttavia aveva imparato che qualche modo cortese a volte poteva salvare la pelle. Attese che l’inchiostro si asciugasse, dopodiché ripiegò con cura la missiva in una busta senza sigillarla, in modo che il fabbro potesse farla solo una volta che vi avesse riposto il frutto del suo compito e scrisse sul retro il destinatario e la residenza. Dopodiché la appoggiò di fronte al fabbro, che alzò lo sguardo dal lavoro che intanto stava ancora svolgendo. Un attimo dopo alcune monete tintinnarono sull’incudine.
«Questo è per il lavoro e per la missiva» Mormorò la donna. Il fabbro raccolse le monete contandole a mente e si sorprese non poco quando dopo qualche secondo ne vide altre piovere sul piano metallico: «E queste,» Continuò la legionaria «Se mi assicurate, e avrò modo di constatare, che la missiva verrà consegnata di persona al destinatario e al riparo da occhi indiscreti.» Aggiunse ancora una manciata di monete direttamente nella mano dell’uomo.
«Io non vi ho commissionato questo lavoro. Voi non mi avete visto. Attenetevi a questo e avrete modo di avere altri lavori commissionati da me.»
Mighty annuì con veemenza: «Ho un ragazzo fidato che si occupa delle consegne. Sa essere riservato e nessuno saprà della consegna.»
«Allora questa è la sua mancia» La legionaria lanciò col pollice e l’indice ancora una moneta, che saltellò tintinnando sull’incudine: «Ed è *sua*.. Se scopro che non l’ha guadagnata, non vi farà piacere rivedermi». Dopo quelle parole di ghiaccio, al pari del suo sguardo, la legionaria fece un rapido voltafaccia e uscì dalla fucina. Si diresse verso la piazza, dove aveva lasciato Amroth in custodia. Lasciò una moneta alla bambina che si era presa cura del suo destriero in sua assenza e montò in sella, spronandolo di gran carriera verso il quartiere residenziale.
La notte su Athkatla era silenziosa. Solo il vento le riempiva le orecchie. Akhayla era sulla terrazza in cima alla dimora, appoggiata coi gomiti sul parapetto e contemplava il paesaggio. L’aria fredda che la sferzava il viso non le dava fastidio, anche se non c’era proprio abituata. Guardava in direzione di Romar, un punto luminoso indistinto nelle tenebre. Forse da lì Middenheim si scorgeva… O forse no. Troppo scuro per individuarla e, forse, anche con la luce del giorno non era possibile farlo.
“Spero che almeno tu ti renda conto di ciò che hai fatto…” Pensò quasi parlando a se stessa. “Hai affidato ciò a cui tieni più di tutto, la tua dimora, ad una persona che sinceramente non hai mai visto…” Sogghignò nel constatare l’effettiva verità di quelle parole. L’effettiva assurdità della sua azione. Lei non si era mai fidata di nessuno. Nemmeno della sua ombra. Ed ora eccola lì, che aveva appena spedito la chiave della propria dimora ad un perfetto sconosciuto solo per ricambiare l’ospitalità offerta.
“Beh… Ormai l’ho fatto. Quindi, prepariamoci a ricevere ospiti in casa” Pensò con un sospiro. Chiuse gli occhi, sentendo il vento sulla pelle e rimase così per un bel pezzo, mentre la notte acquietava pian piano i rumori della capitale…


~ L’ Incontro ~

La cacciatrice di Ramius sostava all'ingresso della torre di Middenheim, osservando il tramonto che, da quella parte della collina, si poteva ben mirare mostrando quei giochi di luci e sfumature, tipici del crepuscolo. Aspettava qualcosa. Il ritorno di qualcosa... O qualcuno. Gli attimi passavano veloci e il sole moriva un'altra volta per far posto al chiarore delle tre lune. Osservò il cielo mentre il vento gelido dei periodi invernali, non ancora conclusi, cominciava ad alzarsi da terra e a scompigliarle i capelli. La legionaria Akhayla passeggiò lentamente nel quartiere residenziale e quando giunse nei pressi di Middenheim notò una figura proprio davanti all'ingresso, che non riconobbe.
«Buonasera Milady...» La salutò la mezza’. Come un'ombra si avvicinò alla donna mostrandole il viso al chiarore di Vordus. I lunghi capelli mori e ribelli e gli occhi neri come perle, le labbra carnose che quella notte si persero in un sorriso mesto e curvandosi in un inchino salutò la guerriera attendendo la sua reazione.
La donna ricambiò l'inchino: «Salute a voi, milady.. Credevo di essere l'unica a passeggiare in questo quartiere a quest'ora.» Accennò un sorriso cortese.
«Non c'è orario giusto per gli incontri inaspettati.. Ogni ora è buona. E in particolare... Voi alloggiate presso questa torre?» Domandò con cipiglio falsamente sorpreso.
Akhayla inclinò leggermente il capo: «La mia dimora, milady, è Aurora di Fiamma, ad Athkatla. Tuttavia sir Nether mi ha offerto ospitalità, da me peraltro ricambiata.»
Emma sorrise «E io che pensavo che, da ragazza piena di arguzia, approfittaste delle eccellenti doti di maestria del conte per apprendere qualche colpo di spada e allenarvi con lui, Perché..» Squadrò la donna dalla testa ai piedi «Al momento sembrate piuttosto a terra.»
«Conosco sir Nether da troppo poco tempo, e non ho avuto modo di saggiare la sua bravura in combattimento...» La guerriera assottigliò gli occhi grigi, fissandola «..Tuttavia, ne parlate come se l'aveste sperimentata in prima persona...»
«Oh si, certo..» Ciarlò in modo vago, guardando da tutt'altra parte: «Più e più volte quando ero una gladiatrice, mi piaceva allenarmi con lui. Ma adesso si rivelerebbero del tutto inutili le sue lezioni, e anzi, dovrebbe cominciare a prendere ripetizioni da qualcuno..» Aggiunge sarcastica.
La guerriera osservò perplessa il comportamento della ragazzina: «Considerando che quindi è stato il vostro maestro, forse non dovreste usare queste parole per riferirvi a lui…»
«In realtà.. Temo anche di averlo disonorato, uccidendolo...» Un sorriso malevolo si stagliò sul suo volto «E infatti sono qui per chiedervi un grosso favore..»
Akhayla indietreggiò di un passo. Le parole della giovane l'avevano tagliata come coltelli. La sua mano volò subito sull'elsa della spada.
Le iridi della mezzo-demone si tinsero di rosso mentre lesta s'avvicinò alla legionaria, rubandole l’arma dal fodero prima che la donna potesse afferrarla. Estraendola, la contemplò alla luce lunare: «Uhmm.. La vostra lama sembra un giocattolo... Credo che avrete bisogno di farvene forgiare un'altra!» Disse, gettandola sul selciato e prendendo a sua volta la propria spada, seghettata e dai riflessi azzurrognoli. L’umana recuperò immediatamente l’arma a terra, puntandola al volto della mezza’: «Voi...!» La rabbia che provò, quasi inspiegabile, le rese roca la voce.
«Questa è Morte, milady. Ed è stata forgiata da messer Nether stesso, su mia richiesta. È stata con la stessa determinazione con cui ora mi puntate la vostra lama che ho sferrato il colpo decisivo all'uomo, ed ora, mi trovo qui per renderlo partecipe di un altro triste evento che si sta per compiere… E mi duole metter in mezzo anche voi, in questa faccenda che va avanti da troppo.. Troppo tempo…»
Impossibile dire quanto velocemente l'odio s’accresceva nel cuore della legionaria: «Maledetta!» Ringhiò, col volto contratto in un’espressione d'ira pura.
«..Ma egli *deve* sapere che Ramius ha avuto ragione, dicendo che avrebbe avuto il sopravvento la mia parte demoniaca, se non avessi continuato a nutrirmi della luce dello spirito del paladino...» Con freddezza colpì la lama in mano alla donna, disarmandola, e fulminea affondò Morte nell'addome della legionaria: «Riferite questo messaggio al mio signore, milady. Ditegli che Emma Norton, la mezzo-demone, dovrà versare ancora il suo sangue per volere di Ramius.. E di prendersi cura di voi. Di addestrarvi all'evento…» Le sussurrò in un orecchio, ritirando la sua spada. Scomparve tra le ombre, così come era arrivata…
Akhayla si strinse l'addome: un dolore mai provato prima. Cadde in ginocchio, di fronte alla sua spada. Era come se Morte le avesse bruciato le carni, invece di trafiggerla. Si rialzò in piedi e barcollando giunse al portone, socchiudendolo. Camminò senza quasi più forza e una scia di sangue segnò il suo passaggio. Con la vista annebbiata vide una rampa discendente di scale. Le percorse, un passo per volta. Ormai non aveva più forza.
Arrivò ad un portone. Vi s’appoggiò contro. Chiuso. Nella sua mente ormai annebbiata ricordò le ultime parole che Nether le aveva rivolto: “La stanza sigillata...”. Stava per cedere. Con un ultimo sforzo alzò il braccio imbrattato del suo sangue e lo calò sull'uscio: un colpo che rimbombò sul metallo: «Nether…» L’ombra calò sui suoi occhi. Si accasciò a terra, proprio davanti al portone, con la ferita all'addome che spiccava alla luce delle torce.
Nether digrignò i denti. Era abbastanza nervoso da prendersela a morte con chiunque fosse venuto a fargli visita o che, comunque, avesse tentato di ucciderlo, cosa non rara… Scese agilmente dal letto facendo schioccare le ossa del collo e delle braccia per poi afferrare la spada che teneva appesa al muro, dirigendosi verso i piani inferiori. Dietro di lui, Hikari emise un ringhio: non era un buon segno. C'era la remota possibilità che si trattasse ancora del Callidus, ma ne dubitava. Scese le scale lentamente con i sensi tesi allo spasimo, anche quei sensi che un normale umano avrebbe solo potuto sognare di avere. Arrivò al pianterreno trovando il corpo di Akhayla riverso a terra in una pozza di sangue. Corse verso di lei, Hikari subito dietro che annusò l'aria in cerca del responsabile.
Poggiò una mano sul ventre della donna; l'eco emesso dalla ferita era strano, lo avvertì chiaramente: non era stata una semplice arma a trafiggerla. Strinse i denti. Le uniche cose che forse avrebbero potuto salvarla erano nella fucina, ma portarla là dentro non gli piaceva come idea: “Del resto” Pensò “Non ho alternativa...”.
L’aria attorno a lui crepitò per un attimo, mentre i meccanismi della porta entravano in funzione, sensibili alla presenza del paladino. Entrò tenendola in braccio, con la porta che si richiuse pesantemente dietro di sé. La sala era ancora poco illuminata, ma per lui che la conosceva a memoria non era un problema. Trovò una lastra di acciaio, leggermente caldo per via delle condizioni della fucina. La depose sopra quest'ultimo pregando di non aver avuto una cattiva idea. Aprì le mani rallentando il respiro. I cristalli agli angoli del giaciglio improvvisato cominciarono a brillare sempre di più, illuminando la sala quasi a giorno: improvvisamente il corpo di Akhayla ebbe un’improvvisa convulsione e per poco non si ruppe la schiena per la violenza di questa. Nether ringhiò. Quel sistema non era concepito per gli umani e lui non aveva mai avuto la necessità di utilizzarlo prima d’ora. Deglutì sonoramente con la fronte imperlata di sudore. Archi elettrici si formarono attorno a lui mentre la ferita della legionaria si stava rimarginando a grande velocità. Avvertì chiaramente un sapore ferroso sulla bocca, segno che gli sanguinava il naso. Crollò a terra quando la ferita si richiuse del tutto e i cristalli si spensero di colpo, facendo ripiombare la sala nel buio completo.
La donna aprì gli occhi. L'ombra la avvolgeva, ma il dolore non la tormentava più. Si tastò l'addome e quasi le scappò un'esclamazione di stupore nel trovare la pelle perfettamente risanata. Era frastornata, però udì un respiro affannato e riuscì a mormorare: «Chi c'è?» Esitò un istante, poi ancora chiamò: «Nether... Nether, siete voi?»
Il paladino cercò di rispondere, ma si accorse di avere del sangue anche in bocca e lo sputò per terra: «Si.. Si sono io...»
Passò ancora la mano sull'addome, ancora meravigliata da quel prodigio: «Come.. Come è...?!» Poi alla fine, con una voce lieve, che era impossibile imputare ad una donna col un volto perennemente imperscrutabile, sorsero le parole più spontanee: «Grazie.. Qualunque cosa voi abbiate fatto...». Nella mente della legionaria echeggiarono poi le parole della mezzo-demone. Le udì proprio come se fosse ancora là a pronunciarle: «E perdonatemi,» Continuò «Avrei.. Avrei dovuto.. Attaccare per prima.»
Il conte cercò di rialzarsi, inutilmente. Per qualche minuto non sarebbe più stato in grado di muovere un solo muscolo, anzi, aveva la sensazione di essere fortunato ad esser ancora vivo. Voltò la faccia dove più o meno doveva trovarsi la legionaria. Lampi bianchi gli offuscavano la vista ma riuscì a scorgere la sua sagoma: «Ma bene, proprio una giornata riuscita! ..Non dire idiozie, per favore..» Si sentiva troppo stanco anche solo per parlare, ma si sforzò ugualmente: «Stai bene? E soprattutto… Chi o cosa diavolo è stato?!»
“..Diavolo..”, Nether aveva trovato proprio la parola giusta. Akhayla strinse i pugni. Stava meglio, anche se non nel pieno delle forze. La frase sibillina della mezza’ risuonava continuamente, come uno scherno: «Nether, sei in pericolo!» Si alzò di scatto a sedere. Per un attimo barcollò, ma resistette: la consapevolezza di quanto accaduto le fece dimenticare tutto il resto: «Emma Norton. Ho cercato di contrastarla, ma non ce l'ho fatta.»
«Così quello che ho fatto non è servito a niente!» L’uomo strinse i denti dalla rabbia «Ma bene.. Proprio una giornata riuscita, riuscitissima!» Poi più mesto aggiunse «..Quello è affar mio e sarebbe meglio che tu ne stessi fuori.. Non mi hai risposto comunque. Stai bene?»
«Io sto bene, Nether, ma tu...!» Si accorse che stava alzando la voce, quasi stizzita. Scrutò nell'oscurità: ancora non riusciva a scorgere l'uomo. Quando riprese a parlare la sua voce era di nuovo calma: «Perdonami, Nether. È che ora non sono io di cui ti devi preoccupare. Dovevo assolutamente avvertirti… E voglio assolutamente aiutarti.» Prima ancora che l'uomo potesse replicare aprendo bocca lo interruppe: «La faccenda ormai riguarda anche me. Quella mezzo-demone per poco non mi faceva la pelle, e vuole farla anche te, maledizione!»
Lui fece spallucce o, almeno, tentò senza successo: «Non è una novità, è già da parecchio che vuole la mia morte. Tu puoi essergli semplicemente capitata sotto mano per puro caso.. Ormai non ragiona più, almeno non come ragioniamo noi... Uccide e basta.» Sentì una nota di rassegnazione nella propria voce che lo fece sorridere: «Ho fallito su tutta la linea... È una faccenda che riguarda me e lei, è meglio se ne stai fuori e se per un po’ eviti di dormire qui, altrimenti saresti un bersaglio troppo facile.»
Il sorriso amaro di Akhayla restò invisibile nelle tenebre: «C'è poco da fare, purtroppo. Sa dove dimoro e può venire ad uccidermi quando vuole, se le va. Comunque ho incontrato la mezza’ proprio davanti alla tua porta. Sembrava aspettare qualcuno... E a quanto pare proprio me.» La sua voce si fece roca, e la sua espressione seria: «Mentre invece è Ramius che aspetta il tuo sangue... Emma ha voluto che te lo dicessi.» Sentì ancora il respiro affannoso dell'uomo. Finalmente i suoi occhi si abituarono all'oscurità e lo vide carponi lì vicino, boccheggiante, come sfinito. “Maledizione!” Imprecò mentalmente e, sebbene si sentisse ancora le gambe deboli, balzò giù dalla lastra metallica ove era stata adagiata, inginocchiandosi davanti all'uomo: «Dannazione! Preoccuparsi per me quando sei in queste condizioni...» Era stizzosamente preoccupata. Per la prima volta, poi, da che aveva memoria.
Nether storse il naso: «Non è il caso di farla così drammatica..» Sbuffò, scorgendone appena il volto tra le ombre «E comunque non mi stai dicendo nulla di nuovo, immaginavo che sarebbe finita così... Anche se, lo ammetto, speravo diversamente... Mi dispiace solo che tu ne sia rimasta coinvolta.»
Akhayla aiutò l'uomo ad alzarsi lentamente e lo fece sedere sulla stessa lastra su cui stava lei prima: «È questo, dunque, ciò che ti turbava ultimamente?» Chiese anticipando la risposta: «Beh, non credere che non me ne sia accorta. Sono bastate poche parole per capire che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa di grave.. Non ho insistito perché ho capito che erano questioni di cui non volevi parlarne e ho rispettato il tuo volere, ma a questo punto credo che sarebbe meglio che mi dicessi qualcosa di più.. Non credi? Devo sapere con chi avrò a che fare e come affrontarla.» Era il pensiero fisso che galleggiava nella mente della legionaria.
L’uomo si sforzò di allungare una mano trovando il suo braccio al quale si aggrappò rimettendosi in piedi. Stava riacquistando capacità motorie, ma la vista era ancora annebbiata: «Storia lunga e complicata. Te ne parlerò a tempo debito... Semplicemente sono stato forse così folle da pensare di fare la differenza. Penso sia una cosa normale, per un idiota come me...» Disse sorridendo «La cosa che ritengo più assurda è che non voglio arrendermi all'evidenza.» Allungò la mano davanti a sé, tastando il muro in cerca di qualcosa. Trovò un piccolo simbolo in rilievo e sorrise. Con le poche energie rimaste riaccese le torce della fucina, illuminandola nuovamente: «Per un po’ sarò cieco, dovrai guidarmi tu.» Disse in un sussurro, avviandosi verso le scale.
“Accidenti!” Pensò lei. Una conseguenza di ciò che aveva fatto per guarirla? Per un attimo qualcosa attanagliò l'animo della legionaria: senso di colpa?
«Aspettate..» Mormorò accostandosi a lui e afferrandogli il braccio, guidando i suoi passi dapprima sulle scale, un gradino per volta, fino ad arrivare al secondo piano dov’era ubicata la sala con il camino, ora spento. Akhayla si avvicinò ai sofà e aiutò Nether a sedersi. Fu lesta ad accendere il fuoco nella bocca del caminetto, dopodiché s’inginocchiò di fronte a lui, costatando le sue condizioni: «Stai bene?» Senza accorgersene, era parecchio che stava dando del “tu” all'uomo. Si sentì più a suo agio.
«Non sono io quello che è stato toccato dalla Morte, o sbaglio?» Sorrise.
Lei chinò il capo, sfiorandosi distrattamente l'addome risanato: «Morte... Emma mi ha detto anche questo. Mi ha detto che è stata una tua allieva e che ti ha ucciso... Proprio con la spada che tu le hai forgiato.» Strinse i pugni convulsamente, con gli occhi fiammeggianti di sdegno.
«Già, storia divertente...» Annuì cominciando: «Lei arriva, io la ospito. Lei mi chiede di insegnargli ad usar la spada ed io accetto. Poi incontra Ramius e fa un patto con il dio. Forgio un'arma per lei, su sua richiesta, forgio anche un'armatura per lei... E lei inizia a dar la caccia alla gente ma io faccio finta di nulla. Io m’innamoro di lei, ma lei continua ad uccidere, affinché Ramius le dica dov'è il suo amore perduto... Io combatto per lei e cerco di dissuadere Ramius, lei lo viene a sapere e s’infuria, ce l'ha con me, ammazza ancora più persone... Continuo a far finta di niente… Torno nell'Artiglio, lei lo scopre la sera stessa, mi odia di più e mi uccide. Ignoro anche questo, *io*… E mi alleno in previsione di quella che sarà la più dura battaglia di tutta la mia vita... In effetti è un’ottima storia per un romanzo.»
Akhayla restò in silenzio dopo quel fiume ininterrotto di parole. Non era mai stata brava né a consolare, né a criticare: la solitudine l'aveva forgiata anche troppo duramente. Poi, d’un tratto, la sua voce risuonò sorda, ma carica di determinazione: «Tu non combatterai solo.»
Nether inarcò un sopracciglio. Lo sguardo rivolto poco oltre la spalla della legionaria, segno che non ci vedeva ancora bene: «Scordatelo.»
«Non cerco il tuo consenso. Io ti aiuterò, Nether. Ormai ci sono dentro, che ti piaccia o no. E se non vuoi che ti aiuti, non importa, andrò a cercare Emma per conto mio!»
«Ti farai ammazzare...» Disse con voce pacata «Sei ancora viva perché lei ha deciso così... La ferita era grave, ma sapeva che potevo guarirti.»
«E ha commesso un errore! Io andrò a cercarla, Nether, e se davvero pensi che non sia all'altezza..» Si spostò appena perché lo sguardo ancora appannato dell’uomo la puntasse in viso: «Insegnami!»
«L'ultima mia allieva mi ha piantato la mia stessa arma nel petto. Spero tu possa perdonarmi, se sono alquanto restio ad avere altri pupilli sotto la mia protezione.» Sbuffò. «E poi in giro ci sono orde di guerrieri molto più esperti di me, cosa ampiamente dimostrata... Perché dovresti voler essere addestrata proprio da me?»
Lei rimase seria: «Forse perché sei l'unico in tutto il regno di Athkatla di cui mi fido.»
«Un tantino asociali, eh?» Disse lui, coprendo con un dito il sorriso che aveva in volto: «E va bene! ..Ucciso una volta o due volte non mi fa differenza..» Roteò gli occhi al cielo, rimettendosi in piedi: «Su, alzati.. È il momento che tu mi faccia vedere quello che sai fare..» E s’incamminò con passo incerto verso la sala degli allenamenti, andando a sbattere contro il muro e lanciando una serie di imprecazioni a denti stretti: “Ecco, tanti saluti all'aria da uomo carismatico. Aria che non ho mai avuto, tra l'altro..” Pensò tra sé e sé. Varcò la sala ben illuminata grazie alle grandi vetrate che lasciavano entrare la luce del sole. Si diresse quasi meccanicamente verso una rastrelliera per prendere una spada dalla lama lunga e poi dirigersi verso il centro della stanza: «Prendi quello che vuoi.» Disse alla donna.
La legionaria si portò davanti la rastrelliera, mirando per un momento i superbi capolavori che sfavillavano ai raggi solari. Dopo un attimo di riflessione si appropriò di uno spadone e, dopo averne saggiato il peso, si avvicinò a Nether con l'arma stretta nella mancina.
Il paladino storse il naso. Sembrava infastidito: «Cosa aspetti? Attaccami.»
Quel comando era l’unica cosa che attendeva. Con un movimento rapido scattò verso l'uomo tentando un affondo. La lama tagliò l'aria con un sibilo e prima che potesse rendersene conto, si trovò con la spada del conte puntata alla gola: «Come immaginavo...» Borbottò lui, indietreggiando con la spada abbassata. «Riprova.»
Akhayla indietreggiò di un passo a sua volta. Guardò l'uomo e si accorse di un particolare: anche lui era mancino. Ragionò poi sull’arma, che aveva una lama più lunga della sua. Non avrebbe mai potuto avvicinarsi più di tanto, senza prima neutralizzarla. Si gettò in avanti, ma stavolta, anziché mirare al corpo dell'uomo, puntò alla spada, caricando il braccio con tutta la forza che possedeva. Nether si piegò a destra, schivando il colpo e indirizzando il suo verso la testa della legionaria: «Se vuoi la mia opinione, non sei adatta allo spadone...»
Lei sospirò, guardando la sua arma. Finora era sempre stata abituata alla propria spada, che si era fatta su misura. Quindi, lo sguardo si posò nuovamente sulla rastrelliera e, avvicinandosi, le passò in rassegna. Scelse una che in principio aveva ignorato. Simile a una sciabola, lama monofilo, arcuata… La estrasse roteandola abilmente: “Ehi!” Pensò “Questa la manovro molto meglio..”.
Era di nuovo pronta a fronteggiare il conte. Ci fu silenzio, poi la ragazza si mosse rapida come un falco. Stavolta il movimento del suo braccio era più fluido, repentino e letale.
Il paladino parò il colpo, ma prima che potesse effettuare una contromossa la legionaria gli era di nuovo addosso: “Ora ci siamo!” Pensò con un ghigno, mentre parava un altro attacco. La guerriera sferrava mosse su mosse, sentendo con piacere la spada in perfetta sintonia coi suoi movimenti. Tuttavia stava sempre attenta a non elargire colpi troppo pericolosi, o subdoli. Nether deviò ripetutamente la sciabola indietreggiando sempre più. Quando si rese conto di essere pericolosamente vicino alla vetrata, scartò di lato, dando un colpo con il piatto della lama sulla schiena di lei: «Scusa..» Disse prontamente.
La donna si gettò nuovamente sull’insegnante, come se nemmeno avesse accusato il botto: «Il nemico non chiederà scusa!» E digrignando i denti aumentò il ritmo delle stoccate.
Il conte parava ogni mossa e la fronte iniziava ad imperlarsi di sudore. Non si era ancora ripreso del tutto e si rese conto ch’era ancora a torso nudo dopo la giornata passata in fucina e dopo un’altra parata decise che era il momento di porre fine alla faccenda. Schivò un fendente afferrandole la mano per poi torcerlo dietro la sua schiena, bloccandola: «Diciamo basta per oggi?»
Lei sorrise in maniera sagace e, con una torsione quasi impossibile da immaginare, riuscì a liberarsi dalla morsa per poi voltarsi di scatto, sferrando un colpo con la spada. Le due lame si incrociarono a pochi centimetri dai volti e tremarono per lo sforzo esercitato su di esse. Lo sguardo ferreo e concentrato della donna, in netto contrasto con il sorriso sarcastico che aveva sulle labbra, incontrò quello del paladino: «Io non sono stanca. Ma se lo desideri..» E balzò indietro, togliendosi da quella situazione di stallo. Roteò ancora la spada nella mano, poi la ripose nella rastrelliera e contemplando mestamente le spade ivi deposte mormorò: «Siete molto abile. E queste spade sono magnifiche. Anch’io non disdegno i lavori da fucina, ma mai ho realizzato simili capolavori.» E le sfiorò con le dita.
Nether fece spallucce «Armi d'allenamento, nulla di che!» E sbuffò, rimettendo a posto la spada: «Ho realizzato pochi lavori degni di nota... Morte era uno di questi.» Sorrise amareggiato, osservando il cielo attraverso le vetrate e la foresta in lontananza, le cui fronde venivano mosse dalla brezza: «Non era nemmeno il nome che volevo dargli.»
«E qual era il nome, allora?» Si voltò verso di lui, incuriosita.
Corrugando la fronte, inspirò pensoso. Ormai se n'era quasi scordato: «Melas Arakh» Rispose, dopo un attimo di riflessione «Ombranera, nella lingua degli Hrud... Ma morte è più appropriato, credo.»
«Non è la spada a recare morte, ma chi la impugna.. È quel che ho sempre pensato.» Osservò la sua reazione mesta alla domanda, poi scosse la testa in segno di rassegnazione, coi capelli rosso fuoco che svolazzarono da una parte all'altra: «Accidenti, Nether, non darmi ascolto! ..Sono l'ultima persona nel regno che può permettersi di elargire principi o filosofie di vita…» E ripensò tristemente alla propria, derubata dei ricordi, condotta finora senza un preciso scopo.
«Non esistono principi o filosofie di vita. Esistono modi di vivere, opinioni, e ideali. Non occorre essere vecchi di secoli per dire la propria..» Sorrise e si passò una mano tra i capelli corti. Si avvicinò alla rastrelliera prendendo una barra di ferro utilizzandola poi come appoggio: «Desideri un tè? O preferisci qualcosa di più forte?» Chiese allegro, mentre si dirigeva verso la cucina «Ah, e scusa per il mio stato attuale...»
«Dipende da cosa intendi per forte.» Ed accennò un sorriso: «Quello che va bene per te, mi andrà benissimo. E per il resto, non preoccuparti…» Lo seguì fino alla cucina, sedendosi su uno sgabello. Si guardò il braccio: era ancora sporco di sangue secco e se lo sfregò fino a ripulirlo: «Nemmeno il mio aspetto si può dire gradevole, se è per questo, con quest’odore di sangue addosso...»
Nether si voltò per un attimo, con le palpebre abbassate a metà. La osservò per un istante prima di sorridere concentrandosi sull’infuso da preparare: «Lascia che sia io a dire se sei gradevole o no.» Armeggiò con una piccola teiera di metallo che riempì d'acqua per poi metterla sul fuoco: «Ti prego, non giudicare male Emma... Sembra assurdo, ma mi ha ucciso per salvarmi.»
Akhayla trasalì violentemente. Il suo sguardo era puntato sul pavimento, non osando sollevare il capo: «Uccidere per salvare? Mi riesce difficile pensarlo..»
L’uomo sorrise, sbriciolando delle foglie di tè nel contenitore: «Devi sapere,» Disse mettendosi a sedere su una delle poltrone, chiudendo gli occhi «Che lei uccide per poter trovare una persona, persa da molti anni... Non ti spiegherò i dettagli, ti basti sapere che feci un patto a mia volta con Ramius, affinché Emma ottenesse una riduzione della pena da scontare e fu un errore per certi versi. Lei sapeva che il dio, un giorno, avrebbe preteso qualcosa da me in cambio, e per svincolarmi mi uccise sciogliendo gli accordi... L'unica cosa che non ha calcolato, è che io non mi sono comunque tirato indietro.»
Gli occhi della legionaria rimasero ancora fissi sul pavimento, seminascosti dal ciuffo scarlatto di capelli. Dopodiché mormorò: «Un patto con Ramius. Si dice che l'amore e la follia spesso coincidano..» Poi si accorse di aver esagerato. In effetti, non sapeva cosa le fosse preso.
Il sorriso di Nether divenne più ampio: «Non agitarti, non mi hai offeso. Non posso certo prendermela con qualcuno per una semplice opinione. E poi non hai tutti i torti..» S’alzò prendendo la teiera bollente e versandone il contenuto in due tazze bianche dai bordi blu scuro. Ne porse una alla legionaria, insieme alla zuccheriera, che sorseggiò l’infuso senza badare al fatto che fosse bollente. Rifletteva ancora sulle parole dell'uomo: «E adesso cosa intendi fare? Ti lascerai uccidere per adempire al suo scopo?» Le parole erano quasi scherzose, ma amare. «Non posso permetterlo. Perdonami, Nether, ma se Emma vuole la tua morte, troverà prima la mia spada...»
Lui bevve il tè in un sol sorso. Tremò per un istante, a causa della bruciante sensazione di dolore che avvertì per tutto il corpo: «Precisamente».
Il rumore della tazza che sbatté sul tavolo spezzò il silenzio. La mano che la reggeva tremava ancora. Akhayla osservò la tazza, inorridita: l'aveva scheggiata alla base con la violenza del colpo. Per un attimo, la giovane donna non seppe più cosa dire, né tantomeno dove guardare: «Io..» Mormorò, «Scusami Nether, io.. Non volevo..» Era sconvolta. Poi improvvisamente portò la mano al fodero e le balenò un pensiero improvviso: «Devo recuperare la mia spada. È rimasta fuori, ho dimenticato..» E si alzò per poi muoversi a passi lesti verso le scale.
Il conte sbuffò roteando gli occhi al cielo: “Ma perché in qualche modo scappano sempre?!” Si chiese con una vena di disperazione, misto ironia. Salì velocemente per quanto glielo permettesse la gamba, ancora intorpidita, arrivando nella sua stanza: “..Faccio un bagno prima? Ma no, idiota! Quella va a finire che si caccerà in qualche crociata disperata...” Pensò rovistando nel guardaroba, per poi trovare i vestiti da viaggio: un logoro cappotto nero, pantaloni marroni, camicia bianca su cui mise una giacca grigia senza maniche. “Sarà dura da qui fino a casa sua.. Ma tu guarda che mi tocca fare!” Rifletté, avviandosi verso l'uscita della torre.


~ Le Spade Gemelle ~

La porta di Aurora di Fiamma si spalancò con fragore per poi essere richiusa con più violenza. La legionaria corse, attraversando tutto l’atrio, per poi soffermarsi ansante davanti al camino. La dimora era fredda, tuttavia le braci ardevano ancora, segno che il fuoco si era spento da poco tempo. Le osservò, quasi ipnotizzata e con volto assente, prima di gettarci sopra la legna accuratamente deposta lì accanto, su cui il fuoco morente attecchì subito.
Era ansante: aveva percorso tutta la strada da Romar ad Athkatla di corsa, senza fermarsi nemmeno un attimo. Perfino nell’agguato in cui era caduta sulla via del ritorno, ad opera di strane creature, non aveva adoperato mezzi termini per liberarsi di chi aveva davanti, utilizzando le arti oscure di cui cominciava ad acquisire piena padronanza e spazzandoli via praticamente in un sol colpo. In mano aveva ancora la spada, stretta convulsamente…
Fissò il fuoco lambire i ceppi, come se fosse in grado di dare una calmata ai mille pensieri che turbinavano nella sua mente: «Pazzo!» Gridò alla stanza vuota «Pazzo suicida!» Con un colpo violento di spada recise la sommità di alcune candele ornamentali poste sopra il caminetto; le estremità mozzate caddero a terra proprio davanti a lei e la cera cominciò a sciogliersi lentamente, inesorabilmente, per il calore delle fiamme divampanti lì accanto. Sedette pesantemente sul pavimento, ignorando la comodità delle poltrone dietro di lei e passò una mano tra i capelli fissando la propria immagine riflessa nella spada: “Ma che diavolo mi prende?” Non si seppe rispondere. Era la prima volta che si infuriava in quella maniera. Si diede dell’idiota più volte: cosa diavolo le era scattato in testa per farla scappare via così da Middenheim?
Serrò le dita convulsamente, imprigionando una folta ciocca di capelli nel proprio pugno.
“«Ti lascerai uccidere per adempire al suo scopo?»” Quella frase, come la risposta, le martellavano la mente come un maglio: “«Precisamente»”
«Maledizione!» Si alzò in piedi di scatto e sferrò all’aria un colpo carico d’ira così potente che quasi si sbilanciò e roteò su se stessa per via dell’impeto del suo stesso fendente. Rimase in piedi. Lo sguardo fisso sul pavimento, le braccia lungo i fianchi, la spada in mano. “Perché questa rabbia?” Continuava a chiedersi. Perché le sorti di una persona dovevano farle nascere quell’inspiegabile furore?
Troppe domande per nessuna risposta certa. Sentì soltanto di essere sul punto di spezzarsi in due. Doveva affrontare Emma. *Voleva* affrontarla, ma Nether l’avrebbe fermata, lo sapeva.
«Dannazione!» Imprecò ancora, senza rivolgersi a nessuno.
Se avesse affrontato la mezzo-demone (forse avrebbe perso, ma che importava?) sconfiggendola avrebbe ucciso la donna che Nether amava di più al mondo, ma se fosse rimasta senza far niente, Nether stesso si sarebbe lasciato uccidere, ed era un’idea che non riusciva a sopportare: “Dannato Ramius!” si trovò a pensare con ferocia, “Possa tu rimanere vittima nei tuoi stessi inferi e delle tue stesse maledizioni!” Poi una parte di lei parve ribellarsi a quei pensieri. Era quasi una voce maligna, come la parte più fredda e razionale di lei, che prendeva vita ogni volta che sentiva che le debolezze stavano per avere il sopravvento. Era la voce di se stessa, che udiva quando si dava coraggio nelle situazioni più disperate, nei momenti in cui contavano, soltanto la forza e l’istinto di sopravvivenza.
“Ma di che ti preoccupi? E cosa te ne importa? Non te ne è mai importato di nessuno, solo di te stessa! Quindi perché iniziare a farlo adesso?” Eppure quel pensiero la faceva star male. Strinse i pugni, ma quel flusso di coscienza continuò: “Chi sei tu per intrometterti in questa faccenda? E soprattutto, che scopo hai? Lui non sa nemmeno chi sei.. E a dire il vero, nemmeno tu lo sai! Non sei nessuno!” Il furore crebbe oltre i livelli di sopportazione. Non sapeva nemmeno lei per cosa. Guardò nuovamente se stessa nella spada e, improvvisamente, la sua immagine si tramutò in quella della mezzo-demone che la scherniva: “«Più che una spada, sembra un giocattolo»” Con uno scatto e un urlo di rabbia ed odio scagliò la spada nelle fiamme, sollevando un nugolo di braci e scintille. Una di queste la raggiunse ad una mano, ustionandole la pelle. Lei quasi non ci fece caso e rimase lì, immobile, col volto in ombra sotto il ciuffo scarlatto di capelli, sola nell’atrio silenzioso. Strinse i pugni convulsamente e quando alzò il capo un’espressione gelida e consapevole comparve sul suo volto. Un istante dopo corse al piano superiore, diretta alla fucina. Chiuse la porta e si spogliò rapidamente dell’armatura togliendo schinieri, paraspalle e paracosce, fino a rimanere coi semplici vestiti. Caricò la forgia di legna e lavorò di mantice fino a far divampare le fiamme poi si mise a rovistare tra i metalli migliori che aveva a disposizione. Mentre li passava in rassegna si bloccò. Rifletté per un attimo, poi corse fino all’ultimo piano, sulla grande terrazza. La pietra color del fuoco che svettava sull’ara centrale rifletteva i raggi dell’alba. La legionaria la osservò: era stata sagomata in una forma semplice, simile ad un diamante, ed in cima aveva appoggiato un pezzo più piccolo, della stessa sagoma, a formare un’altra punta. L’aveva trovato durante una peripezia in una grotta e dopo accurati studi aveva scoperto che era un cristallo, non di quelli di valore pregiato ma che, curiosamente, “gradiva” i raggi del sole da cui traeva bellezza e durezza: per questo l’aveva incastonato in cima alla dimora, a lavori ultimati, ed era stato quello ad ispirarne il nome.
Allungò la mano e prese il cristallo più piccolo, grande due volte il suo pugno. Lo soppesò. Poteva bastare. Non aveva mai provato, ma c’era sempre una prima volta. Scese nuovamente le scale e si barricò in fucina. Si appropriò della migliore scorta di acciaio che potesse trovare e cominciò a mettere il tutto a fondere.
Nether bussò ripetutamente al portone, rimanendo ad aspettare, ma non ricevendo risposta alcuna, dopo un paio di minuti decise di usare la chiave: “Qua come minimo mi arriva una sberla.” Si guardò attorno perplesso. La dimora era grande e riuscire a scovarla sarebbe stato problematico, anche perché non aveva la minima intenzione di violare l’intimità della donna, gironzolando in casa sua come un ladro o un fantasma smarrito. Avvertì un rumore di sottofondo oltre a quello dei suoi passi. Era appena percettibile, ma difficilmente si sarebbe sbagliato. Salì rapidamente le scale con il cappotto che svolazzava dietro di lui. Arrivato al secondo piano rimase immobile per qualche attimo. Gli echi di quel posto potevano trarre in inganno: “Sinista o destra?” Si chiese, voltando ripetutamente la testa. “Destra!” Disse, mettendosi a correre per poi inchiodare prima di sbattere contro la parete: “Nono! Sinistra!”
Con qualche leggera difficoltà riuscì infine a raggiungere la fucina. Bussò un paio di volte, ma nuovamente non ricevette risposta. Spinse il portone d'acciaio trovandolo aperto. All'interno del posto faceva un caldo terrificante, soprattutto per lui che a differenza della legionaria era parecchio vestito per via della fredda stagione. Non la vide immediatamente, ma capì ugualmente la sua posizione quando delle scintille si sprigionarono dal metallo rovente: «L'acciaio non ti servirà.» Disse tranquillo, cercando di farsi sentire sopra il rumore.
Akhayla sentì una voce alle sue spalle, ma non la riconobbe subito. Tanto fu la sorpresa di udirla, comunque, che afferrò immediatamente una delle spade che giacevano nella rastrelliera e con una mossa fulminea roteò su se stessa, puntandola di fronte a sé. Riuscì a fermarsi appena in tempo: la lama della spada era a pochi centimetri dal collo di Nether. L’espressione feroce sul suo viso si rilassò a poco a poco, mormorando con voce sorda: «Perdonami..» Chinò il capo in segno di scuse, poi depose nuovamente la spada al suo posto «Non sono abituata a ricevere visite qua dentro.»
«Ma dai?! Non l'avevo notato!» Esclamò Nether, portandosi istintivamente la mano al collo. Osservò per qualche attimo la fucina per poi voltarsi di nuovo verso di lei: «Se pensi di andare ad uccidere Emma, toglitelo dalla testa.»
Lei continuò nel suo lavoro come se niente fosse, evitando lo sguardo dell'uomo. I colpi di maglio sovrastavano la fucina, poi la sua voce, roca, come a soffocare qualcosa: «Tu la ami, Nether. Non posso "cacciare" qualcuno che ami, ma allo stesso tempo non posso permettere che lei ti uccida!»
«Io amo Emma, non quello che è ora. L'ha detto lei stessa, ora non è né più né meno che l'ombra demoniaca di ciò che era. Io combatto per far si che torni alla luce quella persona e non credere che io sia così stupido da farmi ammazzare senza ragione. Non posso agire in alcun modo ora perché non ho nessuno da combattere, ma se venisse portato a termine il rituale, Emma verrebbe a sapere chi è e dove si trova la persona che ama e io potrei agire indisturbato contro un nemico manifesto... Non posso uccidere un fantasma. Non posso nemmeno dire di esser certo di farcela, anzi, tutt'altro.. Ma è l'unica possibilità a mia disposizione ed intendo sfruttarla fino in fondo. In un modo o nell'altro.»
Lei rimase in silenzio, continuando imperterrita col maglio: «Sei solo un pazzo» Pensò ad alta voce, non con disprezzo, ma triste.
Il conte sorrise in una strana maniera: «Fidati, a questo mondo bisogna essere folli, altrimenti s’impazzisce!» Si girò, avviandosi verso l'uscita «Quando e se vorrai, ti aspetto a casa mia... E lascia stare quel povero pezzo d'acciaio, contro Morte non servirebbe.. Al materiale penserò io»
Smise di martellare: «Non mi piace che qualcuno carpisca ciò che penso, Nether. Pensavo ti fidassi abbastanza per non dover ricorrere a tanto, ma evidentemente mi sbagliavo.» Scagliò il maglio sul tavolo degli attrezzi ma prima ancora che l'uomo potesse replicare continuò con voce più sorda e senza ancora riuscire a guardarlo in volto: «Giungerò a Middenheim domani sera.»
Il paladino rimase immobile sull'entrata della fucina: «Mi fido di te, ma al tuo posto mi sarei fiondato contro Emma nella speranza di ucciderla... Volevo assicurarmi che non fosse così.» Disse, prima di incamminarsi verso casa.
La guerriera osservò cupa il cristallo vermiglio deposto sul tavolo: «Quel momento verrà...» Sibilò a denti stretti, afferrandolo e stringendo la pietra nel pugno tremante di rabbia…

Amroth giunse al galoppo ad Aurora di Fiamma e non fece nemmeno in tempo a fermarsi che la sua padrona era già balzata giù dalla sua sella, correndo immediatamente all’interno della dimora, come se avesse il diavolo alle calcagna. Corse su per le scale, in direzione della fucina, con la saccoccia e le barre di metallo assicurate alla schiena che saltellavano ad ogni passo. Si chiuse letteralmente all’interno: non voleva assolutamente essere disturbata. Non in quel momento. Caricò la forgia con quanta legna potesse farci entrare e lavorò di mantice finché non ottenne un fuoco pari a quello degli inferi: rendeva il piccolo locale impossibile da soggiornarvi, ma lei non ci badò. Non si era nemmeno tolta le protezioni per alleggerirsi del lavoro e senza nemmeno perdere un istante cominciò a mettere le barre a fondere mentre da una parte aveva già preparato un colino apposito per la fusione del cristallo rosso: lo Shéidar, così si chiamava. Mentre aspettava che il calore della forgia svolgesse il suo compito lavorò in maniera rapida ma meticolosa sugli stampi per l’elsa e per le lame. Aveva già tutto in mente: ci aveva ragionato mentre galoppava da Romar ad Athkatla. Due barre, due spade. Due spade gemelle. Avrebbe imparato la tecnica del combattimento a doppia arma, quindi la prossima volta, ragionò, avrebbe dovuto esercitarsi a maneggiare una spada anche con la mano destra che, in quanto a movimenti, rimaneva meno fluida della mancina, quella dominante.
Scacciò via ogni pensiero. Mise a fondere anche degli scampoli di “bronzo di fuoco”, che era un metallo dai riflessi arancio-dorati che avrebbe utilizzato per le rifiniture dell’elsa, insieme ad alcuni frammenti di corallo marino, il tesoro di alcuni briganti sconfitti, e nel frattempo prelevò il metallo elfico fuso e lo colò nello stampo delle lame insieme al cristallo sciolto. Poco dopo fece la stessa cosa con le impugnature, facendo particolare attenzione ad ogni dettaglio. Quando le lame si solidificarono abbastanza afferrò il maglio e cominciò a darci sotto coi colpi con una velocità che era dettata da una concentrazione quasi ossessiva, per poi alternarsi dalla forgia alla mola da affilatura, che sprigionava una cascata di scintille.
Era notte. Quando l’alba sorse, il fuoco nella fucina era già spento ed il lavoro compiuto. La legionaria era china su una panca, i gomiti appoggiati sulle ginocchia e la fronte sul dorso delle mani, gli occhi chiusi. Era sfinita, grondante di sudore e stava cercando di riprendere fiato: non si era fermata neanche un istante. Tuttavia, quando alzò lo sguardo sulle sue creazioni ogni pensiero ed ogni spossatezza si disfecero come neve al sole e sogghignò. Un sogghigno invisibile nell’ombra, quanto la luce di sfida e determinazione che brillava nei suoi occhi: «Ok, bellezze mie» Sussurrò, «È ora di allenarsi» E senza indugio afferrò le due spade e si diresse a passo lesto verso la palestra.
La legionaria era nell’atrio, di fronte all’ara su cui era deposto il braciere in cui accendeva ogni mattino il fuoco di buon auspicio rivolto agli dei benevoli. Le fiamme basse mandavano bagliori obliqui che si riflettevano, stavolta, non sul suo volto, ma su due spade dai riflessi rossastri, impugnate una per mano. La lama di ciascuna era arcuata all’indietro, monofilo, tagliente fino allo stremo; la guardia, di dimensioni modeste, presentava due speroni arcuati in due direzioni opposte, baluginanti di riflessi arancio-dorati così come anche i particolari dell’elsa, che era stata realizzata leggermente ricurva in senso opposto a quello della lama.
Akhayla le fece lambire dalle fiamme, che non ne corruppero assolutamente la lucentezza o la bellezza, come a richiedere una benedizione dai numi: una sorta di battesimo. Poi le roteò entrambe nelle mani un paio di volte, sentendone con piacere il perfetto bilanciamento e la facilità con cui le maneggiava. Invertì la presa nei palmi, tenendo le lame arcuate in linea coi propri avambracci e contemplò la sua figura nello specchio posto su una delle pareti dell’atrio. Erano letali. Erano perfette. Erano le Nemesis…
Il nome affiorò alle labbra senza che se ne accorgesse. “Le mie Nemesis” Un sogghigno di sfida aleggiò sul suo volto, un sogghigno che poteva dire mille cose. Si studiò allo specchio, valutando la grandezza delle spade: “Sì, forse ci vorrebbe un fodero da schiena” Rifletté, e dopo aver spento il fuoco nel braciere ed averci posato sopra le spade si diresse nuovamente nella fucina in cerca di qualche attrezzatura con cui fissarsele alla schiena.

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***
Ora posso anche morire, ho avuto tutto quello che volevo.
Anzi, rimango ancora un po' a burlarmi di voi.


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