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 Memorie del Crepuscolo di una giovinezza Successivo
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MessaggioInviato: Lun Mar 10, 2008 7:37 pm Rispondi citandoTorna in cima

Cronache del Crepuscolo di una Giovinezza

Volume I

Il mio nome è Siegfrid Paulus von Hoenzollern, e questa è la mia storia. Nacqui il giorno trentacinquesimo, del mese decimo nono, del quinto anno del secondo ciclo di Ilùvatar, secondo il calendario delle terre da cui provengo, che si trovano molto al di là del Grande Oceano in cui si smarrisce lo sguardo quando, da queste tristi coste, osservo malinconico il fluire delle maree e l’abbattersi delle onde sulla pietra erosa delle scogliere.
Approssimativamente, nel calendario di queste lande, per coloro che fra voi, lettori, è nato e vissuto qui da sempre, doveva essere l’anno 90, il mese di Morbidan, il giorno 2.
Nacqui nella camera da letto del castello di famiglia, fra le fiorenti colline della Brithannhia, nel cuore stesso dell’Impero Teutonico, che si stendeva dalle rive del Grande Oceano sino ai Monti di Varda, al di là dei quali i “barbari” aspettavano di dilagare nelle verdi pianure, fra le fitte foreste e sulle brulle montagne.
Nacqui strillando, mi raccontarono, agitando le braccia, scalciando, con le orecchie puntute tipiche della razza dei miei genitori. Elfo. Un tempo reietti nell’Impero, agitatori, sino alla Guerra Civile che si era portata nella tomba il nonno di mio padre e il padre di mia madre, ma che aveva dato nuovi diritti, e nuovi doveri, a quel popolo prima oppresso.
Mio padre, nobile Barone Heinrich von Hoenzollern, signore delle terre della Brithannhia da due volte cento anni; mia madre, nobile Baronessa Wilhelmina von Paulus, sposa di mio padre da centoventidue anni.
Nacqui in un periodo di piccole scaramucce di frontiera, sotto il Regno di Elisabette de La Rochelle, ventiduesima Imperatrice, discendente diretta di Kristian il Conquistatore, colui che millecinquecentotre anni prima aveva fondato l’Impero Teutonico sul sangue, sull’onore, sulla gloria e sul fuoco.
I miei primi ricordi risalgono al mio quarto, o forse quinto, anno di vita, e partono da un libro, e da mia madre. Sul libro, scritte e figure. La voce di mia madre mi accompagnava nella lettura, e mi spiegava che essere Elfo comportava l’avere una vita nettamente più lunga di quella di un uomo, anche se non l’essere immortali. Lei aveva centonovantanove anni, e i primi segni dl tempo iniziavano a farsi vedere nell’accentuarsi delle rughe di espressione sul suo volto.
Mi narrava la storia dell’Impero, la storia delle rivolte per i diritti degli Elfi, delle repressioni, della Guerra Civile, e dei Barbari. Così si chiamavano tutte quelle tribù nomadi, o quei popoli stazionari, che vivevano al di là delle Montagne di Varda, o sulle Isole Esterne, note come Ebrides, o negli accampamenti costieri meridionali, mai conquistati dalle truppe imperiali.
Credo fu così che nacque la mia passione per questi popoli, la mia curiosità, la mia voglia di imparare.
Crebbi educato da mia madre sino al settimo anno di età, quindi fui affidato a dei tutori, i quali mi insegnarono a scrivere, leggere, fare di conto, tirare di scherma, cavalcare e tirare con l’arco. Mi insegnarono la strategia militare, le tecniche fondamentali, i grandi esempi del passato, e così giunsi al ventunesimo anno di età.
Mentre crescevo, mio padre rimase una figura esterna alla mia vita, sempre nella sua sala del trono, oppure a caccia con gli altri nobili dell’Impero, oppure a condurre le sue truppe verso le zone di confine, per dare manforte nelle scaramucce che, lentamente, stavano diventando qualcosa di sempre più serio.
E all’età di ventuno anni, dopo avere provato di essere degno dell’appellativo di “adulto” avendo sconfitto i miei maestri nella lotta e nelle lettere, mi presentai da mio padre come suo discendente. E volle il caso che egli fosse appena tornato da una campagna sui confini, e che con lui recasse dei prigionieri di guerra, dei Barbari.
Congedatomi che mi fui dalla sua persona, mi diressi verso le celle dove essi erano rinchiusi, e finalmente li vidi: due uomini e una donna, vestiti in sete fluenti macchiate di sangue e stracciate, le quali si incuneavano, per poi riemergere, sotto placche toraciche in metallo brunito, o entro guanti di acciaio lucente.
Foderi senza più lame pendevano inerti dai loro fianchi, e occhi senza più fiamma di sfida giacevano spenti nelle orbite, sotto cui violacee occhiaie riposavano. Lunghi capelli corvini, barbe folte, occhi verdi, i due uomini, sostanzialmente gemelli. La carnagione era così chiara, da parere lattea.
La donna mi colpì, invece, per la pelle brunita, che non avevo mai visto su uomo alcuno, e per le iridi rosse che sfoggiava su un volto dai lineamenti delicati, sotto capelli neri come l’ossidiana. Levò gli occhi su di me e mi ci persi in meno di un battito di ciglia. Mi allontanai da lei, sgomento, ed è il suo sguardo che sogno ancora nelle notti velate di tristezza, e che scorgo nella bruma del’oceano al tramonto.
Ebbene sì, credo che fu questo l’inizio della mia rovina, o della mia fortuna, a seconda dell’angolazione da cui si osservano le vicende.
Il mio nome è Siegfrid Paulus von Hoenzollern, e questa è la mia storia.

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Il potere è l'immondizia della storia degli umani, e anche se siamo soltanto due romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte.

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MessaggioInviato: Mar Gen 13, 2009 11:50 pm Rispondi citandoTorna in cima

Volume II

Erano passati due mesi dal ritorno di mio padre con i tre prigionieri, e i due uomini erano stati torturati a morte. La donna era ancora viva, nelle segrete, e ogni notte io resistevo all’impulso di andare da lei. Quella notte, con le tre lune parzialmente in cielo, non seppi resistere e mi recai alle celle.
La luce delle torce danzava sulle volte coperte di muschio delle celle, e il sapore dell’estate che aveva la notte, non esisteva là sotto. La guardia mi fece passare con un sorriso, lo ricordo bene. Era un uomo di mezza età, gioviale, che mi aveva sempre trattato con rispetto e non mi aveva mai fatto alcuno sgarbo, ma di lì a poco me ne sarei dimenticato…
Ma procediamo con ordine… giunsi alle celle col cuore in gola, e la prima cosa che vidi fu una figura scarna, l’ombra della donna che avevo visto due mesi prima. Accosciata vicino a una pozza di orina, i capelli lerci, per abito uno straccio imbrattato di sangue. Levò il volto sentendo i miei passi. Era tumefatto, e un taglio fresco si apriva sopra l’occhio destro, una cicatrice segnava la guancia sinistra. Gli occhi rossi erano colmi di dolore, di paura, di odio… erano accesi di una luce che mancava due mesi prima, che era stata estirpata con la sconfitta e con la marcia forzata, e che adesso era stata alimentata con il dolore e la frustrazione.
Non chiese promesse al mio sguardo, non mi obbligò a scegliere il silenzio o l’azione, non lei: fui io che non potei resistere a quella visione. Mi era stato insegnato l’onore: dov’era, in una donna disarmata, malmenata e malnutrita?
Mi era stato insegnato il rispetto: dov’era, in un nemico umiliato?
Mi era stata insegnata la pietà: dov’era nelle percosse?
E mentre riflettevo su tutto questo, già con le mani armeggiavo con la serratura. Il rumore richiamò la guardia, che mi gridò qualcosa e mise mano alla sua spada, estraendola. Ero stato addestrato quattordici anni per quel momento, e fu solo un riflesso meccanico: estrassi la spada e iniziai a combattere. L’uomo non gridò: rideva. Credo pensasse fosse uno scherzo. Non lo era, ma quando il sangue spruzzò dalla sua gola sul mio volto, era troppo tardi perché lui se ne rendesse conto.
Fu il primo uomo che uccisi, il primo di una serie infinita, in una terra in cui Ramius non aveva voce, in cui il barattare l’eliminazione di spiriti fastidiosi con la risurrezione non aveva alcun senso. Morì scalciando. Morì implorando pietà. Morì chiedendomi con gli occhi che si velavano di grigio il perché, perché proprio lui, perché proprio quel giorno.
Non lo seppi allora, non lo so adesso, e non seppi dare risposta a nessun altro di coloro che, con sguardo sempre più spento, me lo chiesero silenziosi nel corso degli anni che vennero in seguito. Era stata furia primeva, frustrazione, senso del tradimento.
Sì, la visione di quella donna in quelle condizioni mi fece sentire tradito, urtato nel profondo: se noi che eravamo così civili trattavamo in tal modo i prigionieri nemici, non erano forse loro giustificati ad odiarci e a fare altrettanto? Erano davvero dei barbari, loro, oppure eravamo noi? In quel momento ero certo che fossimo noi, io e i miei simili, ora propendo più nel pensare che le razze umanoidi siano tutte uguali, crudeli, primitive, sanguinarie, sadiche… e che vivano di questo, come un nettare divino che dona loro la vita.
Raccolsi dal cadavere dell’uomo le chiavi della cella, rinfoderai la lama dopo averla pulita e cercai la chiave giusta. La donna mi guardava con una luce negli occhi, che forse era speranza. Le parlai, mentre cercavo di aprire la cella e darle la libertà, ma lei non rispose. Quando finalmente la serratura scattò e io spalancai la porta, lei tentò di alzarsi in piedi, barcollante. Mi avvicinai a lei, la sorressi e, non senza fatica, la aiutai a uscire dalle celle, fuori, nella notte, immersi nel tepore dell’estate, nei suoi profumi intensi, caldi, avvolgenti, e nel canto degli animali notturni.
Camminammo nel campo interno del castello, verso i miei appartamenti, indisturbati. Le guardie osservavano fuori dalle mura, nessuno camminava entro esse. La adagiai sul mio letto, preparai un bacile di acqua e presi una pezza. Mi slegai la spada dalla cintola e, per sicurezza, un riflesso che conservo tuttora, la poggiai lontano, su un armadio, fuori dalla sua portata.
Con la pezza bagnata le pulii il volto, le braccia, le gambe, e mi fermai. Quando mi voltai per risciacquare il pezzo di stoffa, ella parlò. La sua voce era musicale, dolce, calma, e ancora mi echeggia nella testa. Parlava correttamente la mia lingua, e mi ringraziò, iniziando a piangere. L’odore acre del sudore e della sporcizia che aveva addosso non mi fermarono dal cingerla in un abbraccio. Debolmente, lei contraccambiò.
Fu così che piansi per la prima volta nella mia vita adulta, la prima di una lunga serie. Piansi per il tradimento che sentivo dentro di me. Piansi per l’uomo che avevo ucciso, e che non aveva fatto nulla di male, a parte trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Piansi per lei.
Il tempo era tuttavia un fattore rilevante, il quale giocava a nostro sfavore, pertanto mi slegai da lei, le lasciai la bacinella e la pezza per pulirsi e mi recai nell’altra stanza, per scegliere degli abiti adatti a un lungo viaggio, per me e per lei. Abiti da uomo, per nasconderla; un’armatura, per proteggermi; dei soldi, per il cibo e i pernottamenti.
Tornai da lei con i vestiti e la lasciai di nuovo da sola, per dedicarmi a me. Le spiegai la situazione quando ci fummo vestiti, sottovoce, per non svegliare nessuno, quindi uscimmo nel cortile andammo all’armeria e ci servimmo di ciò che era necessario per il viaggio, che non sapevo ancora dove mi avrebbe condotto. Partimmo in sella a due cavalli, il suo volto bronzeo nascosto dalla seta, io ritto sulla sella, e varcammo le soglie del castello come se fossimo stati in procinto di cavalcare fra le cicale e i gufi nella calura della notte.
Salutai le guardie e dopo alcune centinaia di piedi mi voltai. Fu l’ultima volta che vidi le mura del Castello del Barone von Hoenzollern, quello che sarebbe dovuto essere mio. La donna, che mi disse di chiamarsi Kiha, mi tirò per un braccio, partimmo al galoppo verso la foresta, verso l’avventura, e se lei sapeva dove saremmo andati, io mi affidavo a lei e basta, il cuore in tumulto per i molti avvenimenti, così improvvisi, di quella notte, e la testa in subbuglio, giacchè ero curioso di saperne di più su di lei.
L’aurora ci colse all’ingresso di un villaggio, ma nessuno di noi aveva voglia di fermarsi a riprendere fiato, e così ripartimmo, verso est, verso il sole e le Montagne di Varda, che si stagliavano frastagliate all’orizzonte.

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Ultima modifica di Stormbringer il Mar Gen 13, 2009 11:53 pm, modificato 1 volta in totale
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MessaggioInviato: Mar Gen 13, 2009 11:51 pm Rispondi citandoTorna in cima

Volume III

Il fresco vento di ponente ululava fra le gole delle montagne, e le foglie erano venate di mille colori, quando giungemmo alle falde delle Montagne di Varda. Moltissimi erano i passi che conducevano dall’altra parte, e tutti erano fortemente difesi dalle guarnigioni di soldati imperiali. Erano passati almeno due mesi del vostro calendario da quando io e la barbara eravamo partiti dal castello, e il denaro era prossimo alla fine.
Nel corso del viaggio, avevo imparato a conoscerla, e mi aveva parlato di lei. Era nata in una regione che loro chiamavano Land, da una famiglia di quelli che erano nobili, per la sua gente, discendenti da grandi condottieri di un tempo, e adesso inquadrati in una rigida struttura sociale che poco aveva da invidiare a quella in cui ero cresciuto io stesso.
Venni a sapere che non erano disorganizzati in una serie di tribù, ma che erano un gran numero di popoli, uniti sotto la stessa bandiera e sotto un Re, il cui solo scopo era quello di dare un futuro alla sua gente. Una minaccia incombeva da est, dalle verdi pianure che mi descrisse come infinite, fatte di alte erbe mosse dal vento, e profumate dalle fragranze degli alberi in fiore. Uomini nomadi, a cavallo, abili nel tirar con l’arco e in possesso di strane macchine avevano iniziato a muovere guerra contro di loro. E la sola salvezza che vedevano era nell’ingresso nell’Impero: ma l’Impero li combatteva.
Dentro di me sapevo che la verità stava a metà fra le ragioni di uno e dell’altro, ma in quel momento, scosso dalle sue iridi rosse così profonde, dai capelli così soffici e sottili e incantato dalle sue orecchie così simili alle mie, era lei e solo lei ad avere tutta la ragione. Non ebbi neppure l’ombra della esitazione quando, col cuore in mano e la mente altrove, le promisi di aiutarla e di seguirla ovunque ella fosse andata.
Riposammo in locande, oppure in bettole, o ancora all’addiaccio, avvolti dalla natura e dai suoi ritmi; mangiammo di tutto e di più, da piatti cucinati in cucine linde, a frutti raccolti già marci da sotto gli alberi, eppure ero felice. Probabilmente è stato il periodo della mia vita in cui più sono stato felice e in pace con me stesso, libero da ogni problema e da ogni giogo.
Ogni sera, davanti al fuoco, o nel calore di un letto, ella mi narrava qualcosa in più sul suo conto, e io qualcosa sul mio. Venni a sapere che fra i popoli che avrei trovato dall’altra parte c’erano non solo umani, ma anche elfi, come me, e nani, che descrisse come piccoli umani barbuti, e drow, come lo era lei, elfi dalla carnagione più scura. Mi raccontò qualcosa sulle lotte intestine fra i clan elfici, sull’odio fra elfi e nani, sulle lotte di predominio e sulle sconfitte, e io la ascoltavo rapito, conscio che avrei scoperto un mondo nuovo, e che forse avrei passato lì la mia vita. In realtà, era quello che volevo farmi credere, che avessi trovato la giusta strada, quella che avrei seguito sino alla fine della mia vita.
Non ero così lontano dalla verità, solo che non la intendevo nel modo giusto.
Giungemmo, dunque, alle falde dei monti e imboccammo il sentiero che ci avrebbe condotto alla guarnigione di stanza a uno dei passi. Portavo con me lo stemma di mio padre, e misi dei ceppi alle mani di Kiha. Decidemmo insieme di farlo sembrare uno scambio di prigionieri, e speravamo seriamente che avrebbe funzionato. Ma non ce ne fu alcun bisogno: giunti che fummo alla piccola fortificazione, il rumore della lotta ci venne incontro. Le slegai le mani, misi mano alla mia spada, e dopo un solo sguardo, entrambi ci gettammo al galoppo verso il portone scardinato.
Le fiamme avvolgevano le case delle guardie, il sangue grondava dai muri, dai tetti, dal terreno stesso, e i cadaveri giacevano scomposti in ogni dove. Qualcuno si trascinava a stento, le gambe recise, o le braccia; un uomo con gli occhi fusi dal calore venne a sbattere urlando contro di me, quindi si accasciò al suolo e continuò a contorcersi e urlare.
Ero paralizzato. Non avevo mai assistito a una battaglia, mai visto un teatro di guerra, e non mi aspettavo certo che fosse così. Mi era stato insegnato a combattere, mi era stata descritta la tattica, ma non mi era mai stato detto cosa la guerra comportasse. E ora l’avevo sotto i miei occhi.
Kiha mi prese la mano e mi disse di muovermi, e io mi costrinsi a dare di speroni al mio cavallo. Alcuni soldati imperiali, nelle loro uniformi e armature, lottavano contro uomini avvolti in acciaio e sete, come era stata lei quando la vidi per la prima volta, e nessuno di loro si curò di noi: loro erano già morti, noi eravamo ancora vivi. O almeno, così credetti.
Giungemmo all’altro capo del presidio, e uscimmo dal carnaio. Uomini, molti uomini si paravano davanti a noi. Stavano trascinando dei cadaveri così pieni di frecce, da apparire più simili a dei puntaspilli, che a degli uomini, e ci guardarono, loro. Oh, sì, ci guardarono, e vedendo me, nella mia armatura abbastanza sporca, sul mio cavallo con le insegne dell’Impero, ebbero un fremito.
Poi videro lei, e si rilassarono. Avanzò verso di loro e parlò, mentre le grida continuavano, quindi mi fece cenno di seguirla, e io le fui appresso, come un fedele cane da guardia, o da pastore. E iniziammo a discendere verso il campo di quegli uomini, un accozzaglia di tende sventrate da grossi massi, incenerite da piccoli roghi, chiazzate di sangue e altri residui organici. Uno spettacolo quasi patetico, eppure lo stendardo garriva nel vento che soffiava, su questo versante delle montagne, da oriente.
Oltre l’accampamento, altra terra brulla, qualche arbusto, altri piccoli picchi, e nulla si scorgeva più in là. Forse quella era la fine del mondo, il limitare della civiltà e del progresso. Mi balenò questo pensiero, lo ricordo bene, e mi sentii in colpa.
Entrammo nella tenda più grande e quello che stava seduto su uno scranno di lego di quercia mi sembrò un gigante, per dimensioni, ma quando si voltò a guardarsi, il volto era così colmo di stupore e gioia, che riconobbi in lui quello che era: un padre. Ci presentammo, e fu festa per molti giorni, anche sulla via del ritorno. Ora che sua figlia era a casa, non aveva più senso varcare i confini per cercarla. E io che ero il suo salvatore, sarei presto stato introdotto a quel mondo che mi avevano insegnato a disprezzare, senza nemmeno conoscerlo.

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MessaggioInviato: Mar Gen 13, 2009 11:53 pm Rispondi citandoTorna in cima

Volume IV

Vissi con loro per tre anni. Lottai con loro per tre anni. Scoprii molto di loro…
Eravamo (o forse erano… non so se mi sono mai veramente sentito una parte di loro, o se fossi semplicemente, follemente innamorato di Kiha e per nulla uno di loro) una massa disomogenea di genti, razze e culture: i nani, bassi, tozzi, muscolosi, grandi bevitori di birra e con le loro asce bipenni e le loro mazze a tracolla sulla schiena; gli umani, con i loro indumenti di cuoio e i loro modi di fare viscidi; gli elfi e i drow, vicini ma in procinto di azzannarsi alla gola da un momento all’altro, le orecchie a punta, gli occhi verdi, rossi e blu, i modi altezzosi, le sete fluenti sotto i bronzi istoriati; alla fine, i bastardi, metà una razza, metà l’altra, eterni non integrati, eternamente a metà fra due culture e due mondi, in bilico su un baratro. Come Kiha. In fondo, come me.
La scala sociale era sorretta su una base di semischiavi: albini, alti, volto allungato, orecchie dalla foggia puntuta, eppure dai lobi più spigolosi, occhi rossi, bianchi o gialli, capelli lattei. Loro combattevano fino alla morte, e loro lavoravano dove i loro padroni non volevano lavorare. Loro erano gli altri, i pochi prigionieri di quel popolo che stava seminando il terrore a est, sulle pianure. Loro erano stati castrati, per impedire che proliferassero e per abbattere il loro spirito; per non dare loro motivo alcuno per vivere, per tornare alla loro terra, e quindi lottare per la libertà.
Un popolo strano, questi albini, dagli occhi e dal portamento fieri, con uno sguardo da brividi… Man’leb dicevano di chiamarsi, un popolo benedetto dagli Dèi, e destinato a grandi cose…
Scoprii che molte divinità erano venerate dai “barbari” con cui vivevo, a cui mi ero unito con il matrimonio con Kiha, avvenuto pochi mesi dopo l’avere raggiunto il loro accampamento, e che ogni gruppo razziale possedeva un sotto-pantheon dedicato ai loro primi eroi, e alle figure dei Padri Fondatori; scoprii che i Man’leb, invece, non veneravano alcuno degli Dèi conosciuti a me e a coloro con cui vivevo, e che erano padroni di un vasto impero, lontano e insondabile… erano poche le notizie che si conoscevano su di loro, a parte che erano forti, cavalcavano, usavano molti metalli per forgiare le loro armi e possedevano qualche conoscenza tecnico-scientifica che andava al di là della nostra comprensione; tuttavia a volte attaccavano in gruppi troppo piccoli, o squadre di ricognizione venivano sorprese e aggredite, e i prigionieri erano fatti schiavi. Ed eunuchi.
Non mi tormentavo troppo per loro, impegnato a giacere con la donna che amavo nelle notti e a combattere per penetrare nell’Impero di giorno: ci vedevamo come il ferro caldo compresso fra l’incudine e il martello, e quest’ultimo avanzava rapido sulle steppe e le pianure, per abbattersi con forza su di noi e schiacciarci fra lui e l’Impero in cui ero nato. Sempre nuove forze giungevano a darci man forte, sospinte dalla marea montante dei Man’leb, e fu così che il terzo anno vidi l’Imperio cedere: penetrammo nel territorio tanto agognato, scendendo dalle montagne e stabilendoci nelle foreste alle loro falde. Avevamo raggiunto un accordo, sanguinoso, certamente, ma pur sempre un accordo, con coloro di cui mi sarei dovuto sentire fratello. Avevo strappato la vita con l’artiglio di acciaio che era la mia spada a molti giovani uomini e giovani elfi come me; con ogni probabilità, se avessi controllato bene fra i caduti, avrei potuto riconoscere amici d’infanzia, o guardie della mia Baronia. Ma non lo feci mai.
E con la pace, venne la curiosità e il disio di scoprire qualcosa di più sui nemici che ci hanno sospinto a quella guerra, e fu così che scoprii che il mio disio di parlare coi prigionieri era la mia maggior debolezza, così come la mia curiosità mi avrebbe portato alla rovina. Una pattuglia di duecento guerrieri uscì, un giorno, a contrastare sette ricognitori Man’leb che erano stati visti aggirarsi presso i passi: ne tornarono solo trenta, con due ricognitori Man’leb.
Conobbi uno dei due, un giovane uomo di quel popolo si strano, e lo interrogai a lungo, e lui mi parlò del mondo: mi descrisse le sabbie eterne di Anghbad, e le torri di ghiaccio di Ashalom, e la civiltà del fiume Pothòs, e la città Man, centro del Regno del suo popolo, che oramai era divenuto un Impero. Io da una parte delle sbarre di legno, e lui dall’altra, pesto, umiliato, conscio del fatto che presto sarebbe stato umiliato ancora di più.
Ne rimasi affascinato, e lui mi prese in simpatia, immagino, soprattutto perché una notte, mentre tutta la città di tende dormiva, io andai da lui e lo liberai. Non potevo sopportare che noi facessimo qualcosa del genere a degli uomini come lui, perché come potevamo definirci superiori, se praticavamo quella barbarie?
E lui fuggì. Ricordo ancora la mattina successiva, quando si scoprì della sua fuga, l’ira dei comandanti, e del padre di Kiha, e la delusione di Kiha stessa, che sperava in un servo per la casa che si immaginava avremmo costruito; tutti si immaginavano una nuova vita nell’Impero, una vita piena di gioie e ricca di novità.
Ma tutti si sbagliavano: l’ombra del tradimento incombeva su tutti noi, e quando cadde, aveva l’aspetto di migliaia di quadrelli di balestra. Si abbatterono sul campo con improvviso frastuono, uccidendo senza curarsi del censo e della razza: Kiha fu colpita mentre mi dormiva al fianco. Ricordo il tonfo sordo, il mormorio strozzato e il suo respiro che si spegneva; ricordo di essere uscito e di essere stato colpito a mia volta alla spalla, prima, e alla gamba, poi. Di seguito ricordo ben poco: solo che mi svegliai nel silenzio delle montagne, su un lettino improvvisato, e che le mie ferite erano guarite.
Il Man’leb mi trasportava, e con lui cinque uomini dall’aspetto simile al suo. Mi sorrise, ma io avevo poca voglia di sorridere: la donna che amavo era morta, e quelli che erano stati la mia famiglia per tre anni, distrutti, morti o sperduti nell’Impero. Un tradimento degli accordi, una trappola ordita perfettamente e silenziosamente ai danni di ignari fuggiaschi… non avrei mai dimenticato la mia ira e il mio disprezzo che provai allora nei confronti dell’Impero che era la mia casa, ma poi avrei scoperto che l’età fa cambiare molte cose…
Ci vollero molti mesi affinchè mi riprendessi, quanto meno dal trauma, mesi che impiegai a camminare con i sei taciturni compagni, un po’ a piedi e un po’ a cavallo, sino alla città di Man, molte centinaia di leghe distante dal luogo dove ero cresciuto, oltre le pianure e le steppe; essa si ergeva maestosa sulla riva del Mare Boreale, con alte torri cangianti, velate di nebbia, che si estendevano da case dalle fatture fiabesche e leggiadre, che sembravano fondersi con eleganza le une nella altre, mentre il vento suonava, sì suonava, fra le torri e nei vicoli.
Fu allora che il ragazzo mi disse di chiamarsi Jak’arahlal e che gli altri cinque erano i suoi fratelli. Fu allora che capii, che fui costretto a capire, che il mondo è fatto di uomini, e che non ci sono buoni e cattivi, ma solo culture diverse, in lotta per il predominio, chi con mezzi migliori e chi con mezzi peggiori: ma tutti pensano a sé stessi come a coloro che sono nel giusto e agli altri come coloro che sono nel male. Ci vedevo poco di barbarico, di malvagio e di perverso in quella città.
Il mio destino era quello di cambiare idea sulla perversione, ma anche quella di rimanerne affascinato e abbracciarla con grande impeto.

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Ultima modifica di Stormbringer il Mer Gen 14, 2009 4:18 pm, modificato 1 volta in totale
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MessaggioInviato: Mer Gen 14, 2009 4:17 pm Rispondi citandoTorna in cima

Volume V

La prima cosa che dovetti fare, fu quella di imparare la lingua: una lingua antica, pervasa di potere. Poi mi dedicai a leggere i libri sulla loro storia, sulla loro cultura, sui loro Dèi, sulle Campagne Imperiali di conquista, sulle tattiche militari, e infine sulle terre non colonizzate che si estendevano al di là dei confini dell’Impero Man’leb. Ci vollero dieci anni, dieci lunghi anni in cui fui sostanzialmente segregato in una delle tante torri cangianti, ricevendo le visite continue di Jak’arahlal che presto potei iniziare a definire un caro amico, e che ad ogni suo incontro mi allenava nell’uso della spada e della lancia.
La razza Man’leb, da quanto mi riuscì di capire, discendeva da una antica stirpe di Elfi di Mahile Sheisiau, la Foresta Eterna, che si estendeva a nord delle Sabbie Eterne di Anghbad e a sud-ovest delle Terre Ghiacciate di Ashalom. Le migliaia di secoli avevano trasformato quegli elfi in qualcosa di più simile a degli albini, anche per contaminazioni del loro sangue con quello dei Draghi, avvenute in un’epoca oscura della loro storia, quando iniziò il mito della loro grandezza. Longevi quanto gli Elfi, più robusti, con un pantheon di divinità quanto mai strano e vario, che aveva conglobato quelli di coloro che erano stati conquistati; scoprii che le conquiste erano portate avanti con pugno di ferrò fino alla sottomissione, dopodiché le terre conquistate erano considerate semi-indipendenti, controllate da un pugno di governatori e libere di professare le loro credenze, purchè pagassero i tributi a Man. Il suo Impero avrebbe avuto molto da imparare da queste strane creature, ma il mio Impero era destinato a cadere, e io ero colui che gli avrebbe dovuto dare il colpo di grazia.
Questi pensieri non mi toccavano neppure, però, quando dopo dieci anni uscii dalla torre e rividi la luce del sole e respirai l’aria del mattino. La mia pelle era diventata più candida per la mancanza di esposizione al sole, e i miei muscoli più robusti per l’allenamento con Jak’arahlal; quest’ultimo mi condusse per le vie della città, di cui avevo studiato la planimetria e la storia, e mi portò sino al palazzo Imperiale, dove una fila di guardie dalle cangianti armature seguiva un uomo alto e allampanato, nelle sue vesti svolazzanti: uno stregone. La forza dei Man’leb stava nella loro ferocia, nella potenza della loro magia, e nella tolleranza che sapevano dimostrare verso lo sconfitto, anche se con coloro che si ribellavano erano duri e crudeli: torture, schiavitù, divertimenti perversi, che mi avevano inizialmente disgustato, e poi sempre più affascinato, mano a mano che ne leggevo.
Fui condotto al cospetto dell’Imperatore, un uomo robusto, che secondo i trattati aveva almeno centomila anni, che aveva combattuto innumerevoli battaglie e in cui il sangue di Drago era quasi più del sangue elfico: scaglie rosse percorrevano il suo colto, avvolgendosi dal sopracciglio destro fin sotto il mento, per discendere lungo il collo e scomparire fra le pieghe delle vesti. Comandava, in quei giorni di gloria, duecentosettantasette legioni, per un complessivo di quasi tre milioni di soldati, impegnati in sette campagne di conquista e due guerre civili. L’Imperatore si chiamava Ka’jimal e mi nominò ufficiale nel suo esercito, e fu completo il mio diventare appartenente di quella razza: se non nel sangue, certamente nell’animo.
Da quel giorno in poi, la mia vita cambiò: fui introdotto ai rituali della tortura, che erano visti come preghiere e sacrifici per il Dio del Caos, una versione più perversa di Ramius, e io restai esterrefatto dallo scoprire che un uomo poteva resistere mesi, e anni, se torturato nel giusto modo, così come iniziai ad apprezzare la sottile arte del sottomettere al posto dell’uccidere. Furono mesi di grandi cambiamenti per me, che, penso, divenni davvero uno di loro: integrato come non lo ero mai stato, legato a un amico come non ne avevo mai avuti, e spinto da un desiderio di vendetta e di esplorazione proprio della mia natura, condiviso ora da un intero popolo…
Fu in questo periodo che iniziai a costruire la mia biblioteca, e a comprare, se non a scrivere, libri, che poi portavo sempre con me, e che sono sopravvissuti a tutte le mie peregrinazioni e le mie avventure, giungendo sino agli scaffali nella mia biblioteca a Romar. Furono anni dolci, i sette che seguirono all’uscita dalla torre, anni in cui continuai a coltivare l’amore per le lettere, la storia e in cui imparai molto della tecnologia che stava dietro alla città di Man e ai Man’leb: sistemi di irrigazione, sistemi per portare l’acqua nelle case e nelle torri, fino ai piani più alti, così come sistemi per scaldare le pareti e le stanze fra esse contenute. Imparai come costruire archi più potenti, a forgiare il metallo in maniera più resistente, a costruire congegni elevatori e una serie di meraviglie tecniche che mi erano state precluse nella mia vita precedente, e di cui avevo letto poco o niente nella torre; né furono le sole meraviglie cui assistetti, ma ci vorrebbero interi tomi solo per descrivere il funzionamento dei sistemi di illuminazione della città che prendeva gas infiammabile da qualche parte fuori la città, e lo portava sino alle lanterne di ogni strada, di ogni casa e di ogni sotterraneo.
La mia istruzione era finalmente completa: dopo diciassette anni da quando misi piede per la prima volta a Man, la mia conoscenza sulla civiltà e la cultura, sull’esercito e la guerra, sulla tecnica e la tortura, sulla geografia e la storia dei Man’leb potevano dirsi complete, e fui finalmente assegnato a una legione, la medesima di Jak’arahlal, il cui scopo era quello di schiacciare e conquistare l’Impero in cui ero nato. I Man’leb avevano raggiunto il limitare delle montagne, e giungeva voce che i “barbari” fossero questa volta stati annessi senza tradimenti e inquadrati nelle forze militari, per resistere all’offensiva del “nemico”.
La mia sete di vendetta era pronta per essere placata, e i lunghi anni passati dal tradimento avevano fatto in modo che in me si sedimentasse un desiderio selvaggio, eppure razionale, di distruzione. Non sapevo ancora fino a che punto sarei riuscito a spingere una intera legione.

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Quando lo Stato si prepara a uccidere, si fa chiamare Patria.

Il potere è l'immondizia della storia degli umani, e anche se siamo soltanto due romantici rottami, sputeremo il cuore in faccia all'ingiustizia giorno e notte.
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MessaggioInviato: Mer Gen 14, 2009 5:57 pm Rispondi citandoTorna in cima

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